Pillole di “Stupidario della Maturità”: Il Detestabile Ugo, L’Infelice Giacomo, Il Povero Giovannino, Il Tenero Guido, L’Infernale Alighieri

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IL DETESTABILE UGO (PAG.69)

foscolo

Dai temi:
– “Foscolo descrive le “urne dei forti” perché esse spingono gli uomini forti vivi a fare grandi cose per avere anche loro, un giorno, delle tombe belle e imponenti come quelle di Santa Croce
– “Non vorrei sembrare superstizioso, ma questo parlare sempre di morti e tombe proprio l’anno della Maturità, secondo me porta sfiga
– “Scrive l’Ortis che è un’opera autobiografica, dove racconta come andò in esilio di sua volontà e si uccise preso dalla disperazione

Credo che l’Ugo si suiciderebbe volentieri ascoltando le parafrasi dei suoi versi. Dalle Grazie:

“Le amorose Nereidi oceanine
a drappelli agilissime seguendo
la Gioia alata”

Le Nereidi oceanine amorevolmente
seguivano velocissime e a brandelli
la Gioia alata
.

(…)

E i travagli passionali del Foscolo? La celeberrima strofa finale del sonetto Alla sera, “e mentre guardo la tua pace dorme / quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”, viene così parafrasata:

e mentre guardo la tua pace dorme / quello spirito guerriero che dentro di me russa“.

(…)

Nei Sepolcri infine, raggiungiamo il culmine dell’alienazione mentale; non c’è modo di spiegare altrimenti le visioni del navigante che, veleggiando sotto l’Eubea, “vedea larve guerriere / cercar la pugna”, alias “magrissimi guerrieri / in cerca di pugni“, mentre “all’orror de’ notturni /silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto”, follemente parafrasato “nell’orrore del notturno / silenzio si sentiva nei campi / un rumore tumultuoso di pezzi di dita“.

E dopo ciò è anche possibile la domanda: “Ma Prof, che senso ha? Come facevano a raccogliere tante falangi, falangine e falangette e perché poi le scaricavano nei campi, eh, Pròof?”

L’INFELICE GIACOMO (PAG.100)

Leopardi

Leopardi gode della simpatia maturanda, perché suscita nei ragazzi dal cor gentile sentimenti di dolce compassione, stando almeno a ciò che scrivono nei temi:

Leopardi fu un poeta infelice perché brutto, gobbo e sfigatissimo
– “Aveva dei cari amici, come Pietro Giordani e Massimo Ranieri” (Antonio Ranieri)
– “Leopardi era un po’ troppo intelligente perché a sette anni sapeva già il greco e il latino e studiava come un matto senza mai uscire di casa; per questo diventò malaticcio e gobbo
(…)

Dalla malinconia più totale, si passa a toni decisamente goliardici. Parafrasi de La sera del dì di festa:

“Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia”

Questo di sette è il giorno più gradito,
pieno di sperma e di gioia
.
(…)

La follia colpisce anche gli animali leopardiani. Leggete cosa combina la gallina della Quiete dopo la tempesta:

“Passata è la tempesta
odo augelli far festa e la gallina
tornata in su la via
che ripete il suo verso”

La tempesta è passata
sento gli uccelli festeggiare e la gallina
tornata sulla strada
che imita il verso della tempesta
(…)

e per concludere in bellezza:

Leopardi scrisse un’operetta morale intitolata Il cantico di Gatto Silvestro

IL POVERO GIOVANNINO (PAG. 119)

Pascoli

Pascoli è un poeta che, come Leopardi, ispira tanta tenerezza agli studenti perché orfano, sensibile, solo e, a loro avviso, un po’ gnocco:
Il gelsomino notturno ne è la prova lampante: “Gli amici di Pascoli si sposano e vanno a casa, mentre lui resta solo a guardare le api
(…)

“E le galline cantavano, un cocco!!
ecco ecco un cocco un cocco per te!”

Siamo tutti perfettamente convinti che le galline possano essere degli animali mattacchioni (ricordate quella de La quiete dopo la tempesta?). Ma secondo voi cosa mai avranno da offrire delle pennute pollastre al Valentino vestito di nuovo? Indovinate un po’…

E le galline cantavano, una noce di cocco!
ecco ecco una noce di cocco una noce di cocco tutta per te!


IL TENERO GUIDO
(PAG. 125)

Gozzano

Guido Gozzano faceva tanto il duro, ma in realtà aveva una paura boia della morte”.

Povero Guido! Sfortunello nella vita, nella salute, nel destino, nell’amore…

Di lui si innamorano sempre donne racchie come Felicita, vecchie come la bionda amica de Le due strade, oche come le cuoche diciottenni, poco serie come Cocotte o sapientone come l’Amalia Guglielminetti

L’unica bella e giovane, Graziella, lo tratta malissimo andandosene senza neanche salutarlo, saltando aggraziata e vezzosa sulla bicicletta:

“Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio:
la macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo”

Le diciottenni d’oggi così spiegano la scena:

Non mi parlò. Salì in auto con un balzo, mise in moto facendo rumore passandomi sul piede nudo.

Tenere, delicate fanciulle in fiore, soavi più di mille Carlotte!
Però anche Carlotta e Speranza si dimostrano delle adolescenti un po’ strane, visto che giocano  “a volare” anziché “a volàno”; di un ragazzo “ammirano solo gli occhi, per via dell’educazione restrittiva dell’Ottocento” e “sospirano guardando le stelle del lago riflesse nel cielo“.

Strabiche? Pipistrelle?

Anche l’abbigliamento delle due damigelle lascia un po’ perplessi:

“Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande”

ovverossia

Tutte e due hanno addosso uno scialle, delle arance, dei fiori, degli uccelli, delle ghirlande.

Una volta azzardai dire che quegli scialli avevano la stessa fantasia dei mèzzari genovesi, ottenendo così il seguente risultato:

Entrambe le fanciulle avevano un mezzadro genovese sulle spalle

L’INFERNALE ALIGHIERI (PAG.146)

Dante

(…)
Nel canto XII del Paradiso viene delineata la figura di San Domenico, la cui madre si chiamava Giovanna; Dante, volendo sottolineare il significato etimologico del nome “Giovanna” che è “colei che vive nella grazia del Signore”, nel verso 80 scrive:

“O madre sua veramente Giovanna!”

e gli studenti parafrasano:

1) Oh che sua madre si chiamava veramente Giovanna!
2)
Oh che Giovanna sua madre era sul serio Giovanna!
3)
Oh sua madre Giovanna Giovanna davvero!

Se un commissario, a questo punto, osa domandare loro: “Sì, ho capito che si chiamava Giovanna; però voglio sapere COSA vuol dire “veramente Giovanna”!”, si sente rispondere: “Beh, che non aveva un altro nome, che so, Francesca, Teresa…”
(…)

Ma i maturandi fanno di tutto per sottolineare il fatto che il personaggio preferito da Dante sia, senza ombra di dubbio, Beatrice,  fanciulla della quale il poeta s’innamorò sin da bambino, adorandola fino alla di lei morte, e anche dopo. Ora, nel Paradiso, sono di nuovo insieme…

III vv. 1-3
Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando il dolce aspetto

Beatrice, quel sole che per primo mi aveva fatto innamorare,
aveva scoperto per me la bella verità del suo petto,
dopo varie prove io avevo visto quel dolce aspetto

Oh la sublime visione! Però Beatrice, che legge benissimo nell’animo di Dante, si secca un po’:

V vv. 88-89
Lo suo tacer e ‘l tramutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno

Il fatto che Beatrice stette zitta e cambiò espressione
mise a tacere il mio pensiero lussurioso

Ma la dolce figlia del Portinari si riprende subito e, amorevolmente, si rivolge al suo poeta sussurrandogli:

V v.1
“S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore”

Se io ti arrostisco nel caldo dell’amore

tenere parole dette forse mentre lo fa ruotare sensualmente su uno spiedo?

Ad un tratto però, probabilmente esasperata dal fatto che Dante non faccia altro che fissarla come un ebete, sempre secondo i maturandi sbotta dicendogli:

XXI v.16
Ficca di retro gli occhi tuoi la mente

Ficcati gli occhi dietro la testa!

ma l’Alighieri, imperterrito, continua ad ammirarla estasiato, definendo in tal modo l’effetto che Beatrice ha sulle sue facoltà intellettive:

XXX vv. 26-27
Lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema

Il ricordo del suo dolce sorriso
fa diventare scema da sola la mia mente

sinché Beatrice, ormai totalmente sconvolta:

XXXI vv. 92-93
Sorrise e riguardommi:
poi si tornò nell’eterna fontana.

Mi sorrise, mi guardò di nuovo:
poi si gettò per sempre nella fontana

e tutte le Anime Beate all’unisono, intonarono il loro inno nazionale: Funiculì Funiculà.

XIV vv. 61-62
Tanto mi parver subiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer: “Amme!” (Amen)

Tanto mi sembrarono veloci e attenti
sia un coro che l’altro a dire: “Jamme!”

© Mitì Vigliero, da Lo Stupidario della Maturità, Rizzoli, 1991.

Altre Pillole:

I Promessi Sposi

Giovanni il Pizzoso, Italo l’Inetto, Luigi il Matto  

L’Abominevole Alessandro

Gabriele il Macho

 

 

Un noir del XIII secolo: il Giallo irrisolto di Celestino


Colonna sonora

In Ciociaria si trova il Castello di Fumone; grazie alla sua posizione dominante un immenso paesaggio, nel Medioevo fungeva da sentinella contro le incursioni saracene, longobarde e normanne.

Appena si vedevano movimenti sospetti, dalla torre del “Castro Fumonis” si levava un’immensa colonna di fumo che veniva vista e ritrasmessa dalle torri di Rocca di Cave, Castel San Pietro di Palestrina, Paliano e altre, arrivando sino a Roma e dando in tal modo l’allerta.

Ma la torre è celebre anche perché nel 1296 vi fu imprigionato e morì in circostanze misteriose Pietro da Morrone alias Papa Celestino V, colui che secondo Dante (Inferno, III) “fece per viltade il gran rifiuto” e invece secondo Jacopone da Todi, venne ridotto “in cennere e ’n carbone” da quella fucina, loco tempestoso” che era la Curia Romana d’allora.

Sin da bambino non sopportava gente intorno; religiosissimo, ipersensible e tormentato da incubi e visioni, si  rinchiuse in una vita mistica e penitenziale vivendo da eremita in luoghi impervi e isolati.

Ben presto la sua fama di “santo” attirò torme di fedeli ammiratori; infastidito ed esasperao, per sfuggire alla presenza assillante di questi, continuò a cambiar eremi: dal Monte Porrara al Morrone alle vette della Maiella.

Ma nel 1294, su pressione di Carlo d’Angiò fu eletto Papa.

Celestino trascorse alora un periodo infernale, circondato da maneggioni e faccendieri che gli facevano addirittura firmare bolle papali in bianco.

Costretto a seguire il re a Napoli, si fece costruire in Castel Nuovo una minuscola stanza di legno ove stava rintanato a pregare, affidando il comando a tre cardinali.

Dopo 5 mesi rinunciò al papato.

Al suo posto venne eletto Benedetto Caetani, il terribile Bonifacio VIII il quale, be sapendo che la presenza del Celestino -anche se “ex” – avrebbe provocato uno scisma, per toglierlo di mezzo lo imprigionò in un’inumana cella di Castel Fumone, dove il poveretto morì dopo dieci mesi.

E qui arriviamo al giallo.
Anzi, al noir.

Nella Badia di S.Spirito a Sulmona, eremo prediletto del da Morrone, sino al XVII sec. si conservava un “chiodo longo mezzo palmo” macchiato di sangue; si diceva fosse  l’arma usata da un sicario nipote di Bonifacio per ammazzare Celestino.

E in Santa Maria a Maiella, altro eremo, in un orripilante affresco ora scomparso si vedeva Celestino pregante e dietro di lui un uomo che gli poggiava sulla testa il chiodo sollevando contemporaneamente un martello.

Nel 1630 Lelio Marini, Abate Generale dei Celestini e Sherlock Holmes nell’anima, dopo aver esaminato reperti e cadavere, scoprì nel cranio un foro in cui quel chiodo entrava perfettamente: ergo ne denunciò l’assassinio.

Ma non se ne fece nulla; anzi l’arma del delitto scomparve misteriosamente.

Nel 1888 venne fatta un’altra autopsia, che dichiarò quel buco “assolutamente non accidentale”.

Nel 1998 dalla Basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila, la salma venne trafugata da ignoti e ritrovata in un cimitero vicino a Rieti.
Allora l’Istituto di Anatomia dell’Aquila – dopo aver confermato l’esistenza del buco nel teschio- sottopose i resti a varie analisi, TAC compresa: ma i risultati andarono, di nuovo, miracolosamente perduti.

© Mitì Vigliero

Giallo Celestino

Un giallo, anzi, un noir del XIII secolo 

In Ciociaria si trova il Castello di Fumone; grazie alla sua posizione dominante un immenso paesaggio, nel Medioevo fungeva da sentinella contro le incursioni saracene, longobarde e normanne.
Appena si vedevano movimenti sospetti, dalla torre del “Castro Fumonis” si levava un’immensa colonna di fumo che veniva vista e ritrasmessa dalle torri di Rocca di Cave, Castel San Pietro di Palestrina, Paliano e altre, arrivando sino a Roma e dando in tal modo l’allerta. 

Ma la torre è celebre anche perché nel 1296 vi fu imprigionato e morì in circostanze misteriose Pietro da Morrone alias Papa Celestino V, colui che secondo Dante (Inferno, III) “fece per viltade il gran rifiuto” e invece secondo Jacopone da Todi, venne ridotto “in cennere e ’n carbone” da quella “fucina, loco tempestoso” che era la Curia Romana d’allora.

Sin da bambino non sopportava gente intorno; religiosissimo e tormentato da incubi e visioni, si  rinchiuse in una vita mistica e penitenziale vivendo da eremita in luoghi impervi e isolati.
Ben presto la sua fama di “santo” attirò torme di fedeli ammiratori; per sfuggire alla presenza assillante di questi, continuò a cambiar eremi: dal Monte Porrara al Morrone alle vette della Maiella.

Ma nel 1294, su pressione di Carlo d’Angiò fu eletto Papa; trascorse un periodo infernale, circondato da maneggioni e faccendieri che gli facevano addirittura firmare bolle papali in bianco. Costretto a seguire il re a Napoli, si fece costruire in Castel Nuovo una minuscola stanza di legno ove stava rintanato a pregare, affidando il comando a tre cardinali: dopo 5 mesi rinunciò al papato.

Al suo posto venne eletto Benedetto Caetani, il terribile Bonifacio VIII il quale, sapendo che la presenza del Celestino, anche se “ex”, avrebbe provocato uno scisma, lo imprigionò in un’inumana cella di Castel Fumone, dove il poveretto morì dopo dieci mesi.

E qui sta il giallo.

Nella Badia di S.Spirito  a Sulmona, eremo del da Morrone, sino al XVII sec. si conservava un “chiodo longo mezzo palmo” macchiato di sangue; si diceva fosse  l’arma usata da un nipote di Bonifacio per ammazzare Celestino.
E in Santa Maria a Maiella, altro eremo, in un orripilante affresco ora scomparso si vedeva Celestino pregante e dietro di lui un uomo che gli poggiava sulla testa il chiodo sollevando contemporaneamente un martello.

Nel 1630  Lelio Marini, Abate Generale dei Celestini e Sherlock Holmes nell’anima, dopo aver esaminato reperti e cadavere, scoprì nel cranio un foro in cui quel chiodo entrava perfettamente: ergo ne denunciò l’assassinio.
Ma non se ne fece nulla; anzi l’arma del delitto scomparve misteriosamente.
Nel 1888 venne fatta un’altra autopsia, che dichiarò quel buco “assolutamente non accidentale”.
Nel 1998 dalla Basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila, la salma venne trafugata da ignoti e ritrovata in un cimitero vicino a Rieti; l’istituto di anatomia dell’Aquila – dopo aver confermato l’esistenza del buco nel teschio- sottopose i resti a varie analisi, TAC compresa: ma i risultati andarono di nuovo miracolosamente perduti.   

©Mitì Vigliero