Via Abbi Pazienza: Storia di una Strada Pistoiese

(foto©Giovanni Novara)

Nel centro storico di Pistoia ci sono strade dai nomi decisamente curiosi; ad esempio esiste una Via del Can Bianco, dedicata al botolo che in una notte del ‘300, abbaiando come un dannato, svegliò la Contrada dei Cancellieri salvando gli abitanti da un agguato della fazione nemica.

Oppure Via delle Pappe, in cui il termine “pappe” indica gli intrugli medicamentosi che venivano ammanniti ai ricoverati dell’antico Ospedale del Ceppo che lì si trovava ; oppure ancora Via dell’Acqua, che indicava l’unica locanda della città che nel Trecento aveva già il modernissimo servizio dell’ “acqua in camera”, ossia l’acqua arrivava nelle stanze attraverso un secchio legato a una corda che tramite una carrucola posta fuori dalla finestra finiva direttamente in un pozzo.

Ma di certo la strada che possiede il nome più affascinante è Via Abbi Pazienza.

Tutto risale all’epoca delle lotte fratricide fra Guelfi bianchi e neri, all’epoca del dantesco Vanni Fucci (Dante, Inferno, XIV); periodo in cui omicidi, processi improvvisati e azioni terroristiche nate tutte da una diversa ideologia politica, erano all’ordine del giorno.

Una spiegazione del nome di quella via vuole che un gruppo di Neri, che si era salvato dal boia, trovandosi nel quartiere nomato Canto de’ Rossi (i de’ Rossi erano una potentissima casata guelfa nera) vicino all’unica  casa rimasta indenne dagli incendi appiccati dai Bianchi, incidesse su ciascuno dei quattro angoli dell’edificio questa frase autoconsolatoria:

L’omo si muta.
Perché?
Per lo meglio.
Abbi pacienza
”.

 Il motto, sbiadito ma visibile sino a poco tempo fa su una pietra murata su una fontanella pubblica, diede da allora il nome alla strada.

Però lo studioso Bruno Bruni, nel “Bullettino Storico Pistoiese”, raccontò un’altra storia estremamente più affascinante e scenografica.

Era una notte buia e tempestosa.

Uno dei maggiorenti della Nera famiglia de’ Rossi, aveva avuto una soffiata che gli preannunciava l’arrivo del suo peggior avversario Bianco: l’ignaro tapino sarebbe passato, da solo, “sulla deserta china tra San Filippo e il Carmine”.

Il de’ Rossi assetato di vendetta e pieno di rabbia s’acquattò, nascosto da un mantello col cappuccio e stringendo fra le mani un affilato pugnale, all’angolo della china, proprio dove si trova la fontanella di cui sopra.

L’attesa fu spasmodica.

Finalmente udì un rumore di rapidi passi e vide l’ombra d’un uomo intabarrato.
Allora gli si scagliò contro brandendo il pugnale ma il passeggero, velocissimo, con uno scatto del braccio deviò il colpo scaraventando lontano l’arma e scoprendosi il viso.

Il de’ Rossi, raggelato, s’accorse allora che quel volto non apparteneva al suo avversario, bensì al suo amico più caro; e guardandolo fisso negli occhi, contrito e tremante non trovò di meglio che dirgli: “Abbi pazienza…”.

L’amico, gentile e comprensivo, raccolse da terra il pugnale, lo riconsegnò al de’ Rossi e s’allontanarono insieme nella notte scura, chiacchierando amabilmente sul come far fuori una buona volta – e con più attenzione – gli odiati Bianchi.

© Mitì Vigliero


Breve Storia del Reggiseno

 

Le donne si sono coperte il seno sin dai primordi della civiltà umana; all’inizio lo facevano non per pudore, ma per proteggerlo  e soprattutto per poter assorbire il latte nel periodo dell’allattamento.

Le greche, durante le manifestazioni sportive usavano l’ ‘”apodesmo“, stretto bendaggio avvolto attorno alle mammelle, che serviva ad impedire che ballonzolassero durante le corse.

A le fanciulle etruscheromane si strizzavano in larghe fasce – dal poco romantico nome di “taenia”- con l’intento (e l’illusione) di far crescere poco il seno e mantenerlo piccolo, come imponeva la moda allora.
Ma dato che alla natura non si comanda, arrivavano regolarmente a costringere gli inevitabili tettoni col “mamillare“, un corpetto di rigido cuoio.

Le cortigiane romane invece  avevano capito subito che il reggiseno poteva essere un utile strumento di seduzione e indossavano uno “strophium” fatto di sciarpe peccaminosamente trasparenti che il poeta Marziale definiva “trappola cui nessun uomo puo’ sfuggire, esca che riaccende di continuo l’amorosa fiamma”.

Le atlete dei giochi nautici esibivano l’antenato del due pezzi, il “subligaculum”, esemplari dei quali si possono vedere nei mosaici di Piazza  Armerina.

Nel 1200 , soprattutto nel Nord Europa, c’era il  “pelicon“; un corpino portato  tra sottoveste e vestito, spesso imbottito di pelliccia come malizioso richiamo amoroso.

Dal ‘300 la malizia esplose un po’ troppo; Dante si sdegnava con le donne fiorentineche van mostrando con le poppe il petto” e nel 1342 i legislatori perugini proibirono le scollature “dalla forcella de la gola en giu’“.

Ragusa il Sacchetti descriveva le sue sfacciate conterranee che andavano “in giro con capezzale tanto aperto da mostrar piu’ giu’ che le ditelle (le ascelle)” e anche le milanesi non scherzavano; è del 1498 un editto in cui si vieta alle scollature di scendere “non oltre un dito della mano sotto la fontanella della gola” . E conoscendo le donne, veniva anche precisato che  “detto dito s’intende di traverso“, non in verticale.

Tra i sec. XV e XVI, per pudore religioso ma ancor di più per moda che voleva solo aspetti ascetici e regali, i seni scomparvero, appiattiti come pizzette sotto bende spesse.

Alla fine del ‘600 però iniziarono a diffondersi i “corsetti” che imperversarono per tutto il ‘700 e l’ ‘800 divenendo i sexyssimi ma famigerati “busti“.

 

Quella che doveva sparire era la pancia: in compenso le mammelle si dovevano mostrare eccome, spinte all’insù da busti corazzati con stecche di balena e ferro.

 

Quando non svenivano per lo stritolamento delle stecche, le dame d’allora ansimavano sempre un po’ causa difficoltà di respiro date dalle stesse: così i poeti d’allora cantavano “i palpitanti cor”, utilizzando ovviamente la romantica parola “cor” come metafora.

Fu solo nel 1911 che una ricca miss americanaMary Jacobs, sfoggiando di giorno al Lido di Venezia estrosi (per allora) completi pantalone che lasciavano scoperto il pancino e la sera trasparentissimi abiti lunghi che non potevano essere indossati col busto, cucendo insieme due foulard di seta, imbottendoli d’ovatta causa scarsità di materia prima sua e cucendo due fettucce come spalline, inventò il reggiseno vero e proprio.
Da pratica fanciulla made in USA, tornata in patria due anni dopo brevettò l’idea, divenendo più ricca che pria.

© Mitì Vigliero

Volta la Carta e il Gioco dell’Oca. E voi, quali filastrocche o “conte” infantili conoscete?



(Lele Luzzati)

La donnina che semina il grano
volta la carta e si vede il villano.

Il villano che zappa la terra
volta la carta e si vede la guerra.

La guerra con tanti soldati
volta la carta e si vede i malati.

I malati con tanto dolore
volta la carta e si vede il dottore.

Il dottore che fa la ricetta
volta la carta e si vede Concetta.

La Concetta che fa i brigidini
volta la carta e ci sono i bambini.

I bambini che van per i campi
volta la carta e si vedono i lampi.

I lampi che fanno spavento
volta la carta e si vede il convento.

Il convento con frati in preghiera
volta la carta e si vede la fiera.

La fiera con burle e con lazzi
volta la carta e si vedono i pazzi.

I pazzi che cantano a letto
volta la carta e si vede lo spettro.

Uno spettro che appare e va via
volta la carta e si vede Lucia.

Lucia che fa un vestitino
volta la carta e si vede Arlecchino.

Arlecchino che fa gli sgambetti
volta la carta e ci sono i galletti.

I galletti che cantano forte
volta la carta e si vede la Morte.

La Morte che falcia la gente
volta la carta e non si vede più niente.

Questa è una delle tante versioni  di una delle più celebri filastrocche, che venne musicata anche da De Andrè (che ne variò il testo), e che forse però pochi sanno essere ispirata alle tavole del Gioco dell’Oca.

I primi esemplari del gioco, in stampe, li troviamo nel 1600; ma probabilmente esisteva anche prima.

Gli Enciclopedisti francesi nel 1792 pubblicarono lo schema tipico: 63 caselle nella caratteristica successione a spirale ellittica, che riportano disegnate oche in modo sparso e poi numeri fissi caratterizzati da figure fisse (6 il ponte, 19 l’ospedale, 26 e 53 i dadi , 58 la Morte ecc.)

Quei numeri e quelle immagini non sono affatto posti a caso; le oche sono messe tutte sul 9 e i suoi multipli (18, 27, 36 ecc).
E il 9 è considerato il numero della perfezione.

Tutto il gioco è diviso in 7 sezioni, e il 7 nella numerologia antica è il numero del “periodo vitale”: 7 i giorni della Creazione, 7 le Fasi Lunari, 7 le epoche della vita .
Infatti Dante stabilisce la metà del cammin di nostra vita (esistenza attiva) a 35 anni (multiplo di 7).

E le 63 (9×7) caselle del gioco dell’oca simboleggiano il “gran climaterio”, nel Seicento (tempi in cui la vita umana era più breve) considerato la fine del ciclo fisiologico della vita umana e il conseguente arrivo alla vecchiaia.

E propro con la vecchiaia finisce il gioco , col verso finale “La Morte che falcia la gente/volta la carta e non si vede più niente”.

©Mitì Vigliero

E voi quali filastrocche (o “conte”) conoscete?

(QUI i commenti su FriendFeed, che ha deciso di far sciopero e non traslocarli)