Quando le Donne Bramavano Sposarsi: Antichi Riti e Credenze Atte a Trovar Marito

Sino a una cinquantina d’anni fa, in Italia per una donna il rimaner zitella era considerata una vera jattura; per questo in ogni regione esistevano varie forme di “rituali” utili ad evitarla.

Ad esempio in Lombardia si credeva che la fanciulla dovesse contare 100 uomini con la barba incontrati per strada; la sera del centesimo incontro, mettendosi a mezzanotte esatta di fronte allo specchio, avrebbe visto di certo riflesso il volto del futuro e certo consorte.

In Liguria invece quelle da contare erano le donne incinta e ne bastavano 20, mentre nelle Marche, per vedere in sogno il futuro sposo, bastava dormire per 3 notti con un confetto nuziale sotto il cuscino.

In Calabria bisognava evitare di sedersi agli angoli dei tavoli, mentre nelle Marche,  bastava non vestirsi di giallo.

Ovunque era diffusa la credenza di non farsi passare la scopa sopra i piedi all’atto dello spazzare, pena il rimaner nubile a vita; così come quella che suggeriva, la notte di Capodanno, alle signorine di lanciare una pantofola verso la porta di casa: se cadeva con la punta rivolta verso l’uscio, il matrimonio sarebbe avvenuto entro l’anno.

Quasi dappertutto ancora oggi si dice che chi finisce l’ultima goccia di una bottiglia di vino si sposerà entro l’anno; mentre in Brianza invece le ragazze (facendo attenzione di non farsi notare) contavano, guardandola da lontano, la lunga fila dei bottoni sulla tonaca d’un prete, ripetendo “sposa-zitella-monachella- sposa-zitella ecc“: all’ultimo bottone, ottenevano il fatal responso.

Diffusissime erano anche le dialettali “preghiere per trovar marito”; i Santi chiamati in aiuto erano diversi, che si dividevano compiti e luoghi.

Ad esempio in Sicilia era uso fare la “Tredicina di Sant’Antonino“: per 13 giorni consecutivi, le ragazze digiunavano e pregavano così:

Sant’Antuninu mettiti ‘n camminu
San Gaitanu, a manu a manu
San Pasquali, faticilu fari
Madunnuzza di Canicattì,
facci diri a tutti di sì
Santissimu Sagramentu,
nun ci mittìti ‘mpedimentu.

Nelle campagne del mantovano il 5 luglio le ragazze, passando davanti alle edicole dedicate a Sant’Antonio mentre erano dirette alle varie fiere di paese a lui dedicate, mormoravano

Sant’Antoni miracolus
fè ch’a torna a cà col morus
.

Anche in Brianza era in servizio Sant’Antonio:

O sant’Antoni, Antoni del porcell,
fàmel trovà quest’òm, ma ch’el sia bell!

A Napoli invece l’esperto nel settore era San Pasquale Baylon:

San Pasquale Baylonne
protettore delle donne
fateme trovà marito
sano, bello e colorito
come voi, tale e quale,
oh glorioso San Pasquale
.

La versione pugliese (ma ne esiste una identica – tranne che nel dialetto – anche siciliana) era:

San Pasquale Baylonne
protettore de le donne
mannammello ‘nu marito
janco russo e culurito
ha da esse tale e quale
como a te Santo Pasquale.

Se San Pasquale era troppo occupato, niente paura; come aiuto alternativo a Lecce c’era San Ciriaco:

San Ciriaco mio
San Ciriaco gluriuso
famme trovà ‘nu partito
famme ascì ‘a sto pertuso…

Infine, in  Sardegna l’addetta pronuba era Santa Filomena la cui supplica -oserei dire disperata, visto il testo che vi traduco in italiano- così recitava:

Noi vi preghiamo, o Santa Filomena
voi dateci uno sposo o brutto o bello
povero o ricco, saggio e pazzerello.
Pazienza poi se è gobbo oppur sciancato
o zoppo o guercio o tutto sconocchiato.
Il tempo passa e noi siam pronte a tutto:
perciò accogliete voi questa preghiera
prima che il sol tramonti e venga sera
.

© Mitì Vigliero

 

Saraceni e Rattèlle: Storia di Due Castelli e di un’Antica Rivalità Tigullina

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Chi bazzica abitualmente il Golfo del Tigullio, avrà di certo sentito parlare dell’antica rivalità esistente fra gli abitanti di Santa Margherita e quelli di Rapallo; un’antipatia oggi quasi scomparsa, ma che ha precise origini storiche.

Nel XVI secolo il mar Mediterraneo era sconvolto dalle nefande imprese del ferocissimo pirata turco Torghut, il cui nome venne presto storpiato in Dragut.

Il 26 aprile del 1549, il Doge di Genova aveva spedito alle autorità di Santa Margherita e al Podestà di Rapallo una grida in cui li esortava a raddoppiare le guardie sulla costa, servendosi di fuochi notturni e diurni e di “segni di netto e di brutto” (fumi bianchi e neri) che avrebbero dovuto avvisare gli abitanti dell’arrivo delle navi corsare, di modo che gli uomini avrebbero potuto armarsi, i beni essere anfrattati e “le donne con li vecchi e i putti” correre a nascondersi sulle alture.

Fatto sta che i Rapallesi – il perché non si sa, forse per un errore di informazione – disattesero la grida; la notte del 4 luglio il Dragut – al comando d’una flotta di 22 velocissime fruste (piccoli e agili velieri arabi)– piombò come un fulmine su di loro portando morte e distruzione: i Sammargheritesi, allarmati dal fracasso, riuscirono per un pelo ad armarsi ed evitare l’assalto.

Il Podestà di Rapallo, dopo la sciagura, andò dal Doge dicendogli che occorreva costruire un castello fortificato  sulla costa del suo Borgo; i soldi però li avrebbero dovuti tirar fuori i limitrofi Sammargheritesi, visto che i Rapallesi avevano subito ingentissimi danni e loro no, e anche perché correva la voce che al fianco di Dragut operasse come schiavo-consigliere tal Maranola, un sammargheritese marrano e rinnegato che di certo aveva dato al Corsaro le giuste dritte per l’assalto.

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Quando la notizia arrivò a Santa, vi fu un’esplosione di rabbia; gli annali narrano che l’”agente maggiore” Giacomo Costa, uno “dei più altieri in esso loco”, lasciò andare un pugno sul tavolo urlando “Sangue di Dio!” – cosa che, secondo la legge vigente allora, avrebbe potuto costargli la galera o la perforazione della lingua.

A quel grido, la popolazione si riversò nella piazza della Chiesa manifestando la propria indignazione.

Basta “contribuzioni che a Santa Margherita non profittavano un bel niente”!

Basta “star soggetti al borgo di Rapallo”!

E poi “che ne potevano loro se quei là, di fronte a Dragutte, eran scappati come femmine in camicia? Che perciò venissero a mungere come sempre le tasche dei sammargheritesi, questo, perdinci, no!”.

E poiché i tre nerborutissi figli del Costa minacciavano addirittura di marciare su Rapallo e “fare il resto” – ossia di finire il lavoro di Dragut – e i Rapallesi da parte loro volevano pestare quelli di Santa per colpa del loro concittadino traditore, le Somme Autorità gnovesi decisero salomonicamente che ciascuna delle due cittadine avrebbe dovuto costruirsi un castello difensivo, piantandola una buona volta di “rattellàre” (litigare).

Così, su disegni di Antonio de Carabo, maestro comacino, vennero edificati i due castelli di pietra grigia che ancora oggi vediamo: il primo  a Rapallo, al limite della passeggiata, il secondo a Santa Margherita, proprio nel centro del suo piccolo golfo.

© Mitì Vigliero

Vans il Mago: una Misteriosa Storia Torinese

Una delle strade più antiche di Torino è Via dei Mercanti; al numero 9, c’è una bella casa del XV sec. conosciuta come Palazzo Romagnano.

Qui, nella metà dell’Ottocento, al terzo piano si trovò per molti anni il frequentatissimo studio-abitazione di Vans Clapié, strano personaggio originario di Chieri.

Lo chiamavano Il Cinese, per via dei viaggi fatti in Oriente causa il suo precedente lavoro, il commerciante di stoffe: ma soprattutto era conosciuto come Il Mago.

Due le sue specialità, entrambe – a suo dire – imparate in Oriente: quella di guarire le persone con macchinari di sua invenzione tramite la magnetoterapia, e la capacità di prevedere il futuro attraverso la lettura di speciali cristalli.

Ad esempio le cronache narrano che nell’ottobre del 1855, annunciò di aver “visto” delle navi attraccare a un’isola e da queste scendere tantissimi uomini vestiti con una camicia rossa,  guidati da un signore barbuto con gli occhi fiammeggianti, anche lui in camicia rossa (lo sbarco dei Mille a Marsala, previsto con un anticipo di 6 anni).

Spesso interpellato – privatamente o tramite stampa – per risolvere casi di scomparsa o gravi malattie, in generale non era ben visto dai concittadini.

Per i medici era un ciarlatano, soprattutto da quando il 3 novembre del 1861 le sue “applicazioni magnetiche” meritarono un articolo sull’Opinione, giornale torinese assai seguito.
Altri, riguardo la sua preveggenza, pensavano o che fosse un furbone dotato di intuito, o che davvero avesse a che fare con la magia nera.

Una volta previde pubblicamente la caduta di un balcone in via Dora Grossa; gli abitanti della zona si limitarono a fare scongiuri ma, tre giorni dopo, un grosso lastrone di pietra si staccò dal balcone d’una palazzina, ferendo un venditore ambulante.

Questo, furibondo, inveì contro il padrone del balcone il quale però si difese urlando di essere vittima del Clapié, uomo pericoloso, che gli aveva sicuramente “fatto il malocchio” con i suoi satanici poteri.

Così un gruppo di cittadini si recò in via dei Mercanti e, come vide arrivare il Mago, gli si scagliò addosso malmenandolo brutalmente.

Da quel giorno il Vans perse molta della sua socievolezza; usciva raramente di casa e quando lo faceva lanciava occhiatacce talmente truci a chi lo incrociava, che le voci maligne sul suo conto si moltiplicavano.

Il 16 ottobre del 1875, con sguardo più torvo del solito, in via Pietro Micca annunciò lugubremente ai passanti  di aver visto nei suoi cristalli l’incendio di un negozio; il fumo purtroppo nella visione nascondeva l’insegna, ma i danni erano gravissimi.

Il 28 ottobre, in via Milano n°14 andò completamente distrutta dal fuoco la drogheria Tortora.

Coincidenze!”, esclamarono in pochi.
Il malocchio del Mago!”, ringhiarono in molti.

Quando pochi giorni dopo fu lo studio dello stesso Clapié ad incendiarsi, causa un suo magneto-esperimento finito non proprio bene, questa volta fu enorme la folla inferocita che si riversò in via dei Mercanti, e la polizia faticò non poco a salvare il Mago dal linciaggio.

Da quello stesso giorno, come per magia, Vans Clapié scomparve da Torino: e di lui non si seppe mai più nulla.

©Mitì Vigliero