I ricordi sono miei, le foto di Samuele Silva

Nonno Migio aveva gli occhi azzurri come il cielo e i capelli candidi, tagliati a spazzola.
Io e mio fratello, piccolissimi; uscendo da Casa con lui per mano facevamo lunghe passeggiate giù sino al torrente Brobbio, e Nonno ci diceva il nome di ogni foglia, frutto, erba, insetto che incontravamo.
E poi camminavamo ancora sino alla Munia, la più antica cascina del paese, e Nonno raccontava che si chiamava così, Munia (Monaca), perché tantissimi anni prima era un convento.
A ogni passo, chi ci incontrava diceva – con quella pronuncia chiusa e dura del dialetto – “Ceréa, General” , e “ceréa” in margaritese vuol dire “buona sera”; ma mio fratello le prime volte domandava: “Nonno, ma perché ti dicono culéa?”.

Nonna Teresita invece aveva i capelli lunghissimi, ne faceva due trecce che arrotolava attorno alla testa come una corona.
E cucinava coi fiori; insalate di pomodori e primule, risotto alle violette, frittata di menta e di ortica… Mai capìto come facesse a raccogliere le ortiche a mani nude, senza mai farsi male.
Ricordo le merende fatte con le micherìsse appena sfornate e bollenti tagliate a metà e condite con una nocciola di burro che si scioglieva al calore della mollica.
E l’acqua era più buona se bevuta alla fonte… non ricordo il nome…Ci si arrivava passando sotto la Torre e buttandosi giù da un sentierino pieno di more.
E poi i “sucàr” – pronunciati proprio così – di liquerizia comprati dal Tabaccaio, che allora non sapeva ancora che avrebbe avuto un giorno un nipotino speciale . E le “marronite“, parallelepipedini di marmellata di castagne presi dalla Campana, che aveva il negozio di alimentari proprio sotto casa nostra…
Perché da piccoli potevamo mangiare come buoi, senza ingrassare mai?
E quei lunghi pomeriggi di settembre – un mese intero di campagna dopo due mesi di mare, come eravamo fortunati noi bimbi d’allora, eh? – passati a schizzare in bicicletta da via Bertone sino al tennis e ritorno, avanti e indrè avanti e indrè, ma che fatica quella salita al ritorno sino al Castello, schivando mandrie di mucche razza margàra, ossia “bianche come perle“.
Oppure avanti e indrè dalla parte opposta, sfrecciando davanti la chiesa e al campanile più alto della zona, arrivando davanti casa Sibilla e poi voltando a sinistra, circondati di campi di mais, passando davanti al piccolo cimitero e arrivando sino a Riforano… Un’avventura.

Eravamo un gruppo di ragazzini inseparabili e più o meno coetanei; io, mio fratello Guido, i tre cugini Chicco, Mimi e Ginetto; Massimo e Nunzio: le ragazzine si chiamavano Silvia, Irma, Grazia e poi Mirella, Antonella, Ornella. Tutte “ella”.

Davanti alla casa dei cugini, di fianco alla mia, c’era una panca di legno: serate interminabili trascorse lì, il primo che arrivava si sedeva, gli altri in piedi o in groppa alla bici, a parlare parlare parlare, con immensi ed improvvisi scoppi di stupidèra acuta e conseguente irrefrenabile ridarella.

I nostri Grandi, Anna e Pippo-Generale Jr, Teresita, Vittorio e Laura, i genitori di Massimo e Nunzio, sempre insieme anche loro, anche loro a parlare parlare parlare seduti in giardino dentro casa, e la stupidéra e la ridarella loro si mescolava alla nostra.
Poi siamo diventati grandi noi; e ci siamo persi come accade alle covate nei nidi.
E quasi tutti quei nostri Grandi ora sono lì; l’ultimo, il Generale jr, è ancora nella Casa da dove uscivamo con Nonno all’inizio di questa storia. (1)
Gli altri dormono giù, insieme a Nonno e Nonna, verso Riforano, circondati da campi di mais.

© Mitì Vigliero
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