Era un giorno di marzo del 1922; Ubaldo Mazzini, storico spezzino, percorrendo la mulattiera che dal paese di Biassa scendeva a Tramonti (Trans montes), dirigendosi a sinistra verso Monasterolo e zompettando fra ripide fasce coltivate a vite a strapiombo sul mare, si trovò di fronte un grande monolite a forma piramidale e con base rettangolare, sormontato da una croce di ferro.
Sapeva che i valligiani lo chiamavano Pietra del Diavolo, convinti da sempre che quella zona fosse infestata da misteriose presenze; streghe che lì intorno danzavano durante i sabba, Belzebù stesso che era apparso più volte terrorizzando i contadini, globi di fuoco infernale che roteavano attorno al sasso e poi schizzavano verso il mare.
Non solo, ma i vecchi ricordavano che i loro vecchi durante le veglie d’autunno, quando le fredde notti trascorrevano al caldo fiato delle bestie nelle stalle e fra brividi gelati provocati da storie spaventose, sussurravano che di quei sassi misteriosi ve ne erano un tempo ben tre.
L’Ubaldo quel giorno, riflettendo seduto su una rozza panchina di pietra, scoprì che effettivamente vi erano altri due massi simili al primo, solo un poco più piccoli; uno era miseramente crollato da un lato, l’altro era finito esattamente sotto il suo sedere, trasformato – appunto – in panchina.
Armato di metro affrontò il monolite: alto m 2,30 dalla parte che fronteggiava il mare, 1,80 da quella verso il monte, largo 1,50, spesso cm 90, come gli altri due era in pietra serena, che non c’entrava un accidente con la pietra della zona, argillosa e giallastra.
Ergo, quel sassone e gli altri due eran stati trasportati “apposta” in quel luogo, e con una fatica boia, visto che lui da solo doveva pesare circa 4 tonnellate e davvero non doveva essere stata una facile impresa trascinarli su bricchi verticali a quasi 500 m d’altezza, per poi farne una panchina o piantarci su una croce.
E poi la posizione particolare del masso ancora in piedi: posto al limite estremo di uno slargo quasi circolare di 15 m. di diametro, orientato verso ovest- sud ovest in direzione del tramonto al solstizio d’inverno, affinché si stagliasse imponente e pauroso contro il cielo…
E allora, cos’era?
Un Menhir.
Un Menhir antichissimo, simile ai 6000 che si trovano nella vicina Francia, messo lì assieme agli altri due e proprio in quella posizione forse per un motivo ben preciso: millenni fa infatti si credeva che il promontorio occidentale del golfo ligure fosse “l’estremo limite del mondo dei vivi”.
Da lì, secondo gli antichi, le anime dei defunti raggiungevano sotto forma di luci volanti l’Isola dei Beati che talvolta si vedeva galleggiare sul mare, indistinta e lontanissima (la Corsica).
I Menhir di Tramonti potevano forse essere una sorta di Porta, di Segno, di Tempio ove compiere riti magico-religiosi propiziatori per l’Aldilà.
E’ sempre lassù, quel Menhir, lungo quello che oggi è segnato come Sentiero n. 1 (con tanto di Palestra nel Verde completa di percorso ginnico) che da Portovenere conduce a Levanto: e continua a stagliarsi verso il cielo, simbolo muto di un antico mistero mai completamente svelato.
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