Antiche Estati Genovesi 2: Quando S’Andava A “Prendere il Bagno”

(Bagni San Pietro alla Foce)

Fine dell’Ottocento. Il Mantegazza tuonava:

“Il bagno in mare può far miracoli, può trasformare un bimbo scrofoloso in un gagliardo rampollo che porterà il vostro sangue fino alla centesima generazione, può cambiare una convulsa damigella che sviene all’odore del gelsomino in una robusta matrona che può ascendere il Monte Bianco. Quindi andate al mare, o uomini di pianura e di palude, di colli e di monti. Andate al mare e ne riporterete a casa vostra salute, gioia, poesia.”

I genovesi ligi ai consigli del celebre igienista, abbandonavano case e scàgni (uffici) per recarsi “a prendere il bagno” in spiagge che sembravano distanti chilometri perché situate allora davvero in altri “paesini-frazioni”  che oggi invece fanno parte integrante della città.

Andare solo a Sampierdarena o a San Nazzaro (oggi Corso Italia) era un viaggio da famiglia Brambilla in vacanza; i mezzi di trasporto più comuni erano itreni della stazione Principe o le linee tramviarie come la Genova-Foce che partiva da Piazza dell’Annunziata e si fermava (come diceva la pubblicità) a “venti passi esatti” dagli stabilimenti balneari.

A Ponente i più noti erano i Cristoforo Colombo, Stella, Balilla, Giunsella, Margherita e Borana di Sampierdarena; a Cornigliano i Victoria, quelli accanto al Castello Raggio, e i Costanza; a Sestri quelli del Grand Hotel e poi i Pegli.

Levante i Bagni Popolari Strega (dove ora c’è la  sopraelevata), i San Giuliano, i San Pietro; i Marinetta a San Francesco d’Albaro (dove andava Gozzano), i Pompei, Baccione, Ciccetta Casareggio a Sturla, mentre il Lido d’Albaro verrà inaugurato solo nel 1908.

 (Bagni Popolari Strega)

(San Pier d’Arena, Bagni Margherita)

Le famiglie, stracariche di vettovagliamenti vari, una volta entrate negli stabilimenti si separavano: uomini da una partedonne dall’altra.

A ciascuno dei sessi erano riservati cabine e camerini, bagni e docce, salvagenti e canotti, porzioni di spiaggia e persino di mare, il tutto posto a debita, pudica distanza.

Spesso un lungo tendaggio appeso a una corda divideva la spiaggia femminile da quella maschile e la corda proseguiva in acqua , vuoi per divisorio vuoi per aiuto a nuotatori inesperti.

(Cornigliano, Bagni del Castello Raggio)

Su tutti vegliavano nerboruti, baffuti bagnini ma se qualche signora desiderava imparare a nuotare, doveva rassegnarsi alle lezioni di energiche, anziane bagnine dal gonnellino a righe rosse.

Le bagnanti chiuse nei camerini, dopo aver impiegato mezz’ora a spogliarsi dalle lunghe gonne, corpetti, camiciette, corsetti, sottovesti, calze, mutandoni e cappellini, ne impiegavano un’altra per infilare il costume da bagno di lana di alpaca rigorosamente blu o nera (per evitare scandalosetrasparenze“), decorato al colletto da righine bianche.

(*)

Un vero e proprio abito intero e, una volta bagnato, pesantissimo, arricchito da gonne sovrapposte ornate di balze sino a metà polpaccio e maniche al gomito; le adulte indossavano spesse calze di seta e tutte, in testa, vezzose cuffiette di lana, arricciate e bordate di pizzo, calcate sino alla radice del naso. Obbligatorio l’ombrellino parasole, possibilmente di bambù o seta a disegni orientali.

(1910)

gli uomini, cui la moda maschilista permetteva più audacia, infilavano tute di lana composte da canottiera e lunghi bermuda aderenti; in testa, una fresca, distinta paglietta atta sia a riparar dal sole, sia a proteggere dal salino i capelli impomatati, sia a salutare galanti – dall’altra parte della barricata – le natanti donzelle.

(Priaruggia)

La vita nello stabilimento balneare fine ’800 primi 900, non comprendeva soltanto i bagni in mare.
Erano molti quelli che, pur trascorrendo ore sulla spiaggia, preferivano starsene completamente vestiti all’ombra di ampi tendaggi stile padiglione arabo.

Sempre secondo il Mantegazza “respirare l’aria salata” era una cura anch’essa, che preservava da raffreddori e bronchiti invernali, ossigenava il sangue arterioso e, grazie allo jodio, stimolava l’intelligenza.

(San Francesco d’Albaro, Bagni Marinetta)

Le signore più mature sferruzzavano o ricamavano, tenendo incessantemente d’occhio le giovani figlie o nipoti le quali, sfacciatelle, pareva facessero apposta ad arrotolarsi negli ampi costumi bagnati per mostrar meglio le forme ai giovanotti dell’altra metà della spiaggia.

signori dai candidi favoriti fumavano la pipa o il sigaro, finalmente liberi di farlo all’aria aperta di fianco a consorti miracolosamente non geremianti per “l’orribile puzzo“.

E tutti, uomini e donne, indossavano rigorosamente abiti bianchi larghi e leggeri e, viste dall’alto, le spiagge sembravano popolate da candidi, immensi gabbiani.

(Lido d’Albaro)

I bagni Victoria di Cornigliano  erano tra i più comodi, dotati persino di “gabinetti di lettura“, ampie cabine fresche e arieggiate dove era possibile rintanarsi per leggere in pace libri e giornali messi a disposizione gratuitamente.

pomeriggi domenicali venivano invece allietati da lunghe e chiassose esibizioni della Banda Dilettante Cittadina e, se si voleva, la giornata al mare poteva proseguire sino a notte tarda poiché ai Victoria esisteva un’immensa sala prefabbricata fatta apposta per concerti e danze, così come al Lido d’Albaro.

(San Giuliano)

Gli stabilimenti  più eleganti avevano già allora dei bar-ristorante posizionati su terrazze di legno, dove la divisione dei sessi non esisteva anche perché – come avvisavano grandi cartelli posti all’ingresso – era “severamente obbligatorio” andarci completamente vestiti.

Lì s’ingannava il tempo sorseggiando tamarindi, limonate o liquori, inghiottendo cucchiaiate di gelati e granite, ingurgitando fettone di torta di riso e formaggio o crostate.

Intorno ai quei tavoli, allora come ora, c’erano sempre gli indefessi eroi della briscola, della dama, degli scacchi.

Ma soprattutto, allora come ora, si “ciattellàva” tanto di questo e di quello, e i pettegolezzi sussurrati, le opinioni politiche, le discussioni familiari, le parole d’amore venivano raccolte tutte insieme dalla brezza marina e portate al largo, verso l’orizzonte lontano.

© Mitì Vigliero

 

A Cornigliano c’era un Castello: Storia del Castello Raggio

C’era una volta a Cornigliano, nel ponente genovese, un bellissimo castello in riva al mare, con a fianco una spiaggia dall’acqua limpida.
Una spiaggia anche letteraria; fu proprio lì che cadde la Luigia

Il castello somigliava un poco  a quello del Miramare di Trieste  e il suo proprietario era Edilio Raggio (1840-1906)  , personaggio amatissimo dai genovesi e considerato allora l’uomo più ricco d’Italia.

Fornitore ufficiale di carbone della Marina e delle Ferrovie, creatore della Società Trasporti Marittimi Raggio&C, fondatore a Sestri Ponente del primo stabilimento di siderurgia della Ferriera, proprietario di miniere, altoforni, industrie di macinati, zuccherifici, cotonifici, assicurazioni, banche.
La sua fortuna oscillava dai 150 ai 200 milioni di lire annue.

Per erigere  il castello, Edilio nel 1879 pagò il terreno 50.000 lire (1000 lire di allora valevano circa 3.500 euro).
Per costruirlo, ne spese 660.000.


(©Trippini)

In quel maniero, sia con lui che con suo figlio Carlo, venne ospitata la Storia: Umberto I, la regina Margherita, Giolitti e nel ’22 i rappresentanti di 34 nazioni, capitanati dal ministro Facta, in una Conferenza destinata a riorganizzare l’economia del dopoguerra.


(©)

In quegli anni (e precisamente nel 1926) nacque l’idea di far nascere “la Grande Genova”, realizzando un’area industriale con grandi impianti siderugici, e nel ‘38 iniziarono i lavori dell’aeroporto.
Poi tornò la Guerra; gli eredi di Raggio sfollarono nel basso Piemonte, e la Storia si scatenò, ma non in modo positivo.
Sulla spiaggia a fianco del Castello deserto, dapprima vennero create rudimentali saline ove s’evaporava l’acqua di mare su lamiere scaldate da fornelli.

C’era bisogno di legna da ardere; vennero distrutte le piante del giardino, e i fumi danneggiarono le pareti interne.
Nel 1940 l‘Ansaldo pose sempre sulla spiaggia i cannoni per collaudarli, danneggiando con le vibrazioni gli affreschi e gli stucchi dei grandi saloni; poi venne occupato da un presidio militare di 300 soldati austriaci agli ordini delComando Tedesco e, infine, il 25 aprile del ’45partigiani lo assaltarono.

Nel ‘46, del Castello rimaneva solo lo scheletro in muratura; spariti arredi,  gradini e balaustre di marmo, serramenti,  orditure del tetto, tubature.
La gente tornava lentamente alla spiaggia, libera dai cannoni e dall’acqua ancora limpidissima; i bambini giocavano nell’immenso rudere, sotto gli alti soffitti completamente sfondati dai quali si vedeva un cielo ancora azzurrissimo.

Poi la Finsider (Iri) iniziò a mettere in pratica il Piano Sinigaglia

Il 18 aprile 1950, Edilio Raggio marchese D’Azeglio (figlio di Carlo) vendette per 12 milioni (1000 lire del ’50 valevano circa 12 euro) il castello all’ingegner Mario Ricci.

Il 14 aprile del ’51, uomini vestiti con le tipiche divise di velluto a coste dei minatori, minarono il rudere; suonò la tromba d’avviso, vi fu un’esplosione: alle 17,50 era tutto finito e scomparso.

Però sono ancora in molti a vedere con gli occhi della mente, di fianco alle acciaierie di Cornigliano , la figura del Castello Raggio: impalpabile e pallido fantasma di tempi, regni, fortune svaniti dalla terra, ma non dalla memoria.

© Mitì Vigliero

 

Pacciughi a Coronata: Genovese Storia d’Amore, Gelosia, Trucido Assassinio e Miracoloso Happy End

 Pacciuga-e-Pacciugo

A ponente di Genova, sopra Cornigliano e sulla riva destra del Polcevera, si erge il colle di Coronata.
Sulla vetta di questo già nel IX secolo venne eretta una chiesa dedicata a San Michele Arcangelo; a fianco a questa, nel 1157, ne sorse un’altra in onore di “Mariae de Colunata” e infine nel 1500 i due edifici vennero uniti in un unico Santuario.
La Madonna di Coronata è considerata dai genovesi una delle loro massime protettrici; invocata in caso di guerre, epidemie, cataclismi vari, è notissima però anche come nume tutelare degli innamorati.
Si racconta che a Genova, nel sestiere di Prè, vivessero un marinaio detto Pacciugo con la moglie Pacciuga; erano tranquilli e felici sino a quando lui, viaggiando verso l’Oriente, cadde prigioniero dei Turchi e condotto schiavo in Algeria.
La Pacciuga, disperata, ogni sabato si recava a piedi al Santuario per supplicare la Madonna di far tornare il suo sposo.
Trascorsero 12 lunghissimi anni e un bel giorno, ovviamente di sabato, Pacciugo tornò a Prè.
Non trovando la moglie in casa, domandò a una vicina dove fosse; questa, carogna, gli fece intendere che da quando lui era partito la Pacciuga, ogni santo sabato che cadeva in terra, si metteva tutta elegante e se ne andava a un appuntamento chissà dove e chissà con chi
Pacciugo, che in schiavitù aveva imparato ad incassare e tacere, quando fu riabbracciato dalla Pacciuga le propose di andare insieme il giorno dopo a ringraziar la Madonna di Coronata per la grazia ricevuta; sarebbero andati in barca sino a Cornigliano e da lì, a piedi nudi come veri pellegrini, avrebbero affrontato l’erta salita del monte fino al Santuario.
La mattina seguente in barca, appena furono fuori dal porto, Pacciugo smise di remare e iniziò a insultare urlando la moglie, accusandola di tradimento e condotta riprovevole; fuori di sè, la strozzò: poi legò il corpo a un sasso e lo scaraventò in mare.
Sbarcato a Cornigliano però venne preso da un feroce rimorso e corse al Santuario per invocare perdono; ma appena entrato vide, genuflessa di fronte all’altare della Vergine, la moglie viva e vegeta che gli raccontò che appena caduta in mare, due mani invisibili l’avevano salvata trasportandola per l’aria e depositandola nel Santuario.
Insomma, un miracolo. E una leggenda, certo.
Però se vi recherete nel bel Santuario di Coronata, troverete fra gli ex voto deliziose tavole dipinte  che ritraggono la truce storia a lieto fine e, in una nicchia, le due statue affiancate del Pacciugo e della Pacciuga  , elegantissimi nel costume tradizionale genovese.
E, come scrisse Remo Borzini, “di notte, quando la chiesa è vuota, le immense navate sono buie come le stive e gli ex voto sembrano brillare di luce propria come stelle, allora questi coniugi di cartapesta raccontano alla Madonna tante cose.
Lei le parla di Prè, dei dodici anni di attesa, del basilico coltivato sul davanzale per fare il pesto al Pacciugo non appena fosse tornato etc etc.
Lui le racconta le storie dei turchi, e ogni notte ne ha una nuova.
E la Vergine ancora oggi ascolta e sorride
.”

© Mitì Vigliero