Dedico a tutti gli appassionati di giardinaggio una parte del XVI capitolo del mio In Campagna non fa freddo, storia di una famiglia fermamente decisa ad abbandonare l’inquinata, fracassona e caotica città, per trasferirsi nell’avita Casa di Campagna.
I personaggi qui citati sono Bianca, la narratrice. Suo marito Leo e Camilla, la loro figlia settenne. Zia Rachele, che li aiuta nell’impresa. E poi Ginotta e Giacomin, anziani custodi della Casa.
Adriana la madre di Leo appassionata di viaggi e odiatrice della bucolica quiete. Zia Delfina, l’antica proprietaria della Casa, Il Sindaco detto Sindich, l’Archiciàp (ir)responsabile direttore dei lavori di ristrutturazione insieme alle sue Truppe Cammellate, il Maresciallo dei carabinieri, Don Maso il Parroco e infine il Vivaista, che ora coi proventi elargitigli dalla famiglia cittadina vive in una villa in Florida.
****
…Ovviamente, per creare un giardino come dicevo io, dovetti acquistare qualche piccolo attrezzo: rastrelli, palette, spargisemi, cesoie, un rullo frangizolle, forche, guanti, stivali, cuscinetti para ginocchia e, infine, Leo mi regalò il Manuale del perfetto giardiniere.
Ne avevo progettato uno splendido; un grande prato all’inglese sul quale sistemare fiori, cespugli e arbusti a mio piacimento. Ma, secondo il Manuale, per ottenere una buona riuscita del prato era innanzi tutto indispensabile un’accurata preparazione del terreno:
“Esso dovrà essere perfettamente livellato; quindi, dopo averci passato più volte il rullo frangizolle, per ottenere un’assoluta compattazione occorrerà camminarci su a velocissimi e brevissimi passi, appoggiando tutto il peso sui talloni”.
Fu così che Leo, Camilla, Rachele, Ginotta, Giacomin, l’Archiciàp, un paio di esponenti delle Truppe Cammellate e io trascorremmo due ore a zampettare sul terreno, aiutati anche da Don Maso, rapito nel momento in cui era giunto a benedire la Casa in previsione delle feste pasquali.
A un tratto fummo interrotti da una voce: “Va bene che sono appena tornata dalla Spagna, ma non era il caso d’accogliermi ballando il flamenco”.
Era Adriana, la quale aveva assistito allo spettacolo standosene affacciata alla veranda.
“Mi ghe l’avévi ditt che l’era ‘na stupidàda…” brontolò dignitosamente Ginotta, lanciandomi un’occhiataccia.
Però il terreno risultò infine compatto alla perfezione.
Appena l’erbetta iniziò a spuntare, mi resi conto che l’aver sfidato lo spirito di zia Delfina era stata cosa poco saggia. Infatti avrei potuto affittare il mio prato a una Scuola Agraria per permettere agli studenti di osservare da vicino tutte, ma proprio tutte le malattie di cui sono soggetti i prati.
Poiché il drenaggio era difettoso, sull’erba comparve presto un repellente strato viscido e gelatinoso composto d’alghe e licheni. Poi gli steli si tinsero di color zafferano a causa degli elatteridi, e perciò fui costretta a far spolverizzare il terreno con micidiali geodisinfestanti.
Dopo un po’ il prato divenne marrone e si coprì di muffa bianca e cotonosa per colpa della fusariosi, che dovetti debellare con un velenosissimo anticrittogamico.
Infine, tanti piccoli e irregolari cumuli di terra comparvero sparpagliati sul terreno: erano arrivati i lombrichi, animali di solito buoni per il giardinaggio, ma nefasti per i prati all’inglese.
Secondo il Manuale del perfetto giardiniere avrei dovuto eliminare i coni di terra con “scopature periodiche”.
“Figurati un po’ se adesso mi metto a scopare il prato.”
“Potresti usare l’aspirapolvere” suggerì pratica mia suocera, che continuava a rimandare la sua partenza per l’arcipelago delle Lolland perché con me si divertiva di più.
Quando, finalmente, il prato fu a posto, invasa dal sacro fuoco verziero afferrai una pila di cataloghi di fiori e approfittai di vantaggiose offerte tipo ottocento bulbi misti di tulipani, narcisi, giacinti, muscari, crochi, anemoni, ranuncoli, nonché un centinaio di gigli dai diversi colori.
Camilla invece scelse trenta piante di super mirtilli Patriot, trenta di mega lamponi Himbo-Star e trenta di ribes varietà Rondom.
Infine obbligai tutta la famiglia a seguirmi in un grande Vivaio vicino al paese, dove acquistai una giungla d’ortensie e dalie unite a rose gialle Paul’s Lemon Pillar, salmone Metanoia, rosa Blossom Time, rosso scure Mr Lincoln, oltre le True Love color crema e le arancioni Sultane Beauty.
Zia Rachele, esperta in erboristica, fece scorta di piante officinali: agrimonia, utile a debellare le faringiti, malva contro il mal di denti, altea per il mal di stomaco, angelica per combattere l’inappetenza, verbena contro i reumatismi, cardamomo attivante la salivazione, capsella antiemorragica e, già che c’era, anche un po’ di bardana, miracolosa nella cura della calvizie.
Adriana volle camelie, gerani, gerbere, gladioli, rododendri, portulache, salvia splendens, peonie e calle, mentre Leo si limitò a un paio di giovani alberi scelti non si sa con quale criterio (una betulla, un tiglio, una tuia, un sorbo degli uccellatori) e infine qualche cespuglietto – così, tanto per gradire – di lillà, lavanda, forsizia, passiflora, bignonia e gelsomino.
Una volta messe a dimora le varie piante e dopo essermi ripresa dal collasso causato dal conto del Vivaista, dovetti affrontare un nuovo grande problema: ogni mattina il mio bel prato era cosparso da innumerevoli tumuli di terra smossa.
“Ràtt tappun” fu la diagnosi di Giacomin.
“Talpe” tradusse Leo. “Un battaglione di talpe. O una talpa solitaria, ma freneticamente attiva.”
Il Vivaista ci consigliò dei piccoli tubi da inserire nelle gallerie: “Sono fumogeni; voi li accendete con un fiammifero, li buttate nei buchi e le talpe moriranno soffocate”.
Dopo aver rischiato di incendiare metà dei costosissimi cespugli appena piantati, decidemmo di tentare metodi meno cruenti e perigliosi.
“Le talpe hanno paura delle voci umane” disse il Sindich, e così ci riunimmo numerosi in giardino gridando come ossessi, ottenendo l’unico risultato di far accorrere il Maresciallo, chiamato d’urgenza dai vicini allarmati.
“Le talpe odiano le vibrazioni” disse il Don. “Al mio paese appendiamo agli alberi delle tegole, che col vento sbattono sul tronco: le vibrazioni passano alle radici e così le talpe scappano.”
Appendemmo le tegole, ma dato che in questo paese non c’è mai un refolo di vento manco a pagarlo, la cosa si rivelò originalmente decorativa e totalmente inutile.
Infine il problema fu risolto dalla Ginotta la quale, una mattina, si presentò reggendo una cestina coperta da un tovagliolo a scacchi: “Ariss-porchìn” annunciò sollevando il tovagliolo e mostrando una tenera famiglia di ricci, padre, madre, e figlio.
Anche se non compresi mai il motivo preciso, da quel giorno le talpe decisero di emigrare.
A quel punto il Vivaista mi convinse quanto fosse assolutamente indispensabile fornire il mio giardino di un irrigatore oscillante:
“Completamente computerizzato, ha la caratteristica di poter innaffiare completamente tutto intorno, o di agire soltanto sulla verticale verso destra o verso sinistra, oppure su entrambi i lati” mi spiegò “Inoltre il getto d’acqua può essere variato passando dalla nebulizzazione al flusso pieno e infine può essere comodamente attivato tramite ordini programmati sull’apposito timer.”
Ma l’irrigatore, una volta piazzato nel centro del giardino, si rifiutò sin dal primo giorno di obbedire agli ordini: poiché era un vero anarchico, lo battezzammo Bakunin.
Bakunin non innaffiava mai quando doveva innaffiare, bloccava il timer e sabotava la messa in funzione manuale rifilandoci scosse da sedia elettrica.
In compenso, quotidianamente, dal giardino s’elevavano improvvisi strilli lanciati da chi, per caso, gli passava vicino e veniva investito da inaspettati e violenti getti d’acqua gelata che Bakunin emetteva a suo piacimento.
Notammo presto che nutriva una particolare antipatia nei confronti dell’Archiciàp; come ne sentiva la voce in lontananza, iniziava a gorgogliare sommessamente, poi si metteva a vibrare tutto eccitato e infine, appena il poveretto si trovava a distanza esatta, lo colpiva in pieno con la potenza d’un idrante.
Perciò, quando l’erba e i fiori erano particolarmente secchi, divenne nostra abitudine invitare cordialmente l’Archiciàp a gustare aperitivi e merende da noi: in giardino, s’intende.
La nefasta influenza di Bakunin ben presto si dimostrò dilagante; non so come, ma riuscì a convertire al sovversivismo più assoluto il giardino al completo.
Fu per colpa sua che le rose scelte con amore in varietà multicolore, si limitarono a far sbocciare esclusivamente fiori bianchi; fu sempre sua responsabilità se il glicine e il gelsomino si rifiutarono di emettere ogni sorta di profumo, così come fu sempre lui a fomentare allo sciopero le coscienze degli ottocento bulbi, di modo che ne attecchirono solo venti e, infine, fu sempre lui a istigare metà di gladioli al suicidio.
Ma un giorno fece un passo falso.
Avendo terminato la sua bieca missione terroristica nel mio giardino, Bakunin decise di sobillare l’orto di Giacomin.
Persuase quindi i semi d’insalata a germogliare saponaria; convinse i peperoni dolci a diventare piccanti e, infine, chiamò a raccolta tutti i lumaconi dei dintorni affinché organizzassero un esproprio proletario degli ortaggi.
Questo, per Giacomin, fu il colmo.
Dopo esser corso alla cascina, tornò scavallando in giardino imbracciando una doppietta caricata a pallettoni.
Poi si piantò a gambe larghe di fronte a Bakunin, prese la mira e, al grido di “pietà l’è morta”, lo fucilò.
© Mitì Vigliero, dal cap. XVI di In Campagna non fa freddo(Mondadori)