La Misteriosa Fanciulla della Via Appia: Storia di un Bellissimo Cadavere

Era il 18 aprile del 1485, lunedì, quando alcuni operai che cercavano del marmo nel terreno di un casale al sesto miglio circa della via Appia, vennero inghiottiti da una voragine apertasi all’improvviso sotto di loro, causata dal crollo di una volta in mattoni appartenente a una tomba d’epoca romana.

All’interno venne rinvenuto un sarcofago, uno dei tanti che venivano alla luce su quella strada che dagli antichi romani veniva usata come cimitero monumentale e, dai loro posteri, come self service di preziosi materiali da riciclare nelle loro costruzioni.

Ma questo sarcofago riservava un’incredibile sorpresa: un cadavere femminile perfettamente conservato e così descritto dall’umanista fiorentino Bartolomeo Fonte:

“Un corpo disposto bocconi, coperto d’una sostanza alta due dita, grassa e profumata. Rimossa la crosta odorosa, apparve un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane e raccolti in una reticella di seta e oro.
Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito.
Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravan palpitare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle sì che, volendo, avresti potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora alle splendide lunghe dita delle mani distese.
Petto, ventre e grembo erano invece compressi da un lato e dopo l’asportazione della crosta aromatica si decomposero. Dorso, fianchi e il deretano invece, avevano conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso.”

Il 19 aprile, come scrisse lo storico Gaspare Pontani:

“Martedì fu portato lo detto corpo in casa delli conservatori (Palazzo dei Conservatori in Campidoglio), et andava tanta gente a vederlo che pareva ce fusse la perdonanza (indulgenza plenaria), et fu messo in una cassa de legname e stava scoperto; era corpo giovanile, mostrava da 15 anni, non li mancava membro alcuno, haveva li capelli negri come si fusse morto poco prima, haveva una mistura la quale si diceva l’haveva conservato con li denti bianchi, la lengua, le ciglia; non se sa certo se era maschio o femina, molti credono sia stato morto delli anni 700″

Furono più di 20.000 le persone che solo quel giorno si recarono a vedere quel corpo misterioso, rimanendo affascinate sia dalla bellezza della ragazza, sia dal mistero che l’avvolgeva.

Papa Innocenzo VIII però non gradì tanta ammirazione nei confronti di una donna pagana, oltretutto nuda; così la notte dopo fece trafugare il cadavere ordinando che venisse, a seconda di cosa riportano le fonti, o seppellito in una località segreta a Muro Torto dove venivano inumati i non cristiani, o scaraventato nel Tevere.

Chi fosse stata in vita quella fanciulla, nessuno riuscì a scoprirlo; il monumento funebre sopra la tomba era da tempo stato distrutto e il sarcofago non presentava iscrizioni.

Qualcuno suppose potesse trattarsi di Tulliola, l’adorata figlia di Cicerone; ma di sicuro e preciso, non si seppe mai nulla.

Di lei rimasero soltanto un disegno di anonimo autore che la ritrasse quel 19 aprile del 1495 prima del “trafugamento”, e un fascinoso ricordo leggendario.

© Mitì Vigliero

Perché si dice: In calce

traguardocorsa

Quanti di voi, al momento di firmare un documento, si cono sentiti richiedere “una firma in calce” e magari hanno pensato rapidamente “cavolo c’entra la calce?”

Ora vi svelo l’arcano.

E’ una locuzione di origine latina, che però di lingua latina non ha nulla dato che “calx calcis” in latino significava originariamente solo  “tallone, calcagno”.

La spiegazione sta tutta nel fatto che i latini, esattamente come noi oggi, nel linguaggio sportivo erano terribilmente esterofili, prediligendo termini di altri popoli, facendoli diventare poi parte integrante del loro vocabolario.

Per questo motivo quel “calce” è una parola greca, calix, che significa calce, sì, proprio quella roba bianca usata dai muratori.
E una striscia di calce era utilizzata negli stadi o nei percorsi sportivi per delimitare, rendendoli visibili da lontano grazie al color bianco acceso, i traguardi delle gare di corsa.

Per questo “in calce” prese poi genericamente il significato di “alla fine, al termine“.

Per curiosità: Cicerone nel De Senectute  ad un certo punto scrive “ad carceres a calce revocari“, che significa “tornare dalla fine al principio, ossia ricominciare da capo, locuzione  derivata dal linguaggio sportivo e indicante i due momenti basilari della corsa: le sbarre, il recinto di partenza (carcer, acc. carcerem) in cui erano “rinchiusi” i partecipanti  alla gara, e il traguardo (calce).

E così, in calce, vi ho spiegato anche da cosa deriva la parola “carcere“: che volete di più? ;-)

©Mitì Vigliero

Perché si Dice: Pietra dello Scandalo

ringadora modena

I milanesi, per definire un’impresa economica finita male, dicono “finì cont el cü per tèrra”; i piemontesi restà a cul biòt” (nudo) e i genovesi dâ du cù in ta ciappa” (pietra).

In realtà questi modi di dire sono diffusi in tutta Italia, perché derivanti dalla stessa legge.

All’epoca di Cicerone infatti , i debitori insolventi e i commercianti falliti subivano come pena una spietata pubblica “esecuzione” che, se non toglieva loro fisicamente la vita, annientava ogni dignità personale tramite “morte civile”.

Venivano condotti nel Campidoglio e, esposti al pubblico ludibrio denudati dalla cintola in giù, obbligati alla “bonorum cessio culo nudo super lapidem”, ossia a cedere i loro beni (ai banditori d’asta) stando seduti a chiappe nude su una pietra.

Le “pietre dello scandalo” , dette anche “dell’infamia” o “dei fallimenti” erano sparse per tutto lo Stivale, non solo nelle grandi città, e alcune sono tutt’ora visibili.

Ad esempio a San Donato Valdicomino (Frosinone) esiste la cinquecentesca Pietra di San Bernardino (promotore dei Monti di Pietà), dove il debitore stava ininterrottamente seduto a natiche nude per un periodo di tempo proporzionato all’entità del suo debito.

A Rimini sotto il portico del Palazzo dell’Arengo, fra i banchi di banchieri e notai e dove pubblicamente veniva amministrata la giustizia, vi era un pietrone (lapis magnum) dove il condannato doveva battere tre volte e con violenza il sedere nudo gridando ogni volta come un mantra “Cedo bona!” (cedo i miei beni).

Ad Asti la pietra della vergogna si trova ora appesa in verticale nell’atrio del Palazzo Comunale; ma un tempo era nel centro della piazza principale, sede dei mercati.

A Genova si trovava nei pressi del Mercato del pesce e palazzo San Giorgio; a Bergamo era un sedile attaccato ad una delle due colonne che si trovavano in Piazza Vecchia; a Milano si trovava in Piazza Mercanti, ed era un blocco di granito nero.

La pena a Firenze aveva un nome preciso, “l’Acculata”, e si svolgeva nella Loggia del Porcellino nel Mercato Nuovo; la pietra era quel cerchio di 6 spicchi di marmo tutt’ora visibile e che rappresenta in dimensione reale la ruota del Carroccio, simbolo della legalità.

Qui il Magistrato del Bargello, scegliendo le ore in cui il mercato era strapieno, scandiva a voce alta il nome del condannato e il motivo della pena; al tapino poi venivano calate le braghe, era afferrato per braccia e gambe, fatto oscillare sulla folla “ostentando pubenda” e infine, fra i frizzi e lazzi della folla, lasciato caderepercutiendo lapidem culo nudo”.

Infine a Modena erano cattivissimi; usavano la pietra “ringadora”, quel gigantesco blocco di marmo rosso veronese che ora è posto all’angolo del Palazzo Comunale in piazza Grande.

Un’ordinanza dello Statuto Cittadino del 1420 prescriveva che il colpevole dovesse essere lì condotto per 3 consecutivi sabati (giorno di mercato), fare 3 volte il giro della piazza preceduto da trombettieri che attirassero l’attenzione e a ogni giro fosse spinto a ”dare a culo nudo su la petra rengadora la quale sia ben unta da trementina”, per farlo bruciare non solo di vergogna.

© Mitì Vigliero