L’indimenticabile Gilberto Govi

Nel 1966 moriva a Genova Gilberto Govi (vero nome Amerigo Armando), uno degli attori più amati dagli italiani e che Leonida Repaci definì “un demonio che saprebbe far ridere a crepapelle anche se recitasse per tre atti la tavola pitagorica”.

Era nato nel 1885: sorprendentemente portato per il disegno, da ragazzo aveva studiato all’Accademia di Belle Arti e subito era stato assunto come disegnatore dalle Officine Elettriche Genovesi.

Ma  la sua strada era decisamente un’altra: quella del palcoscenico.

Infatti faceva parte dell’Accademia Filodrammatica del teatro Nazionale dove si recitava obbligatoriamente in perfetto italiano: l’Accademia aborriva il dialetto, Govi lo adorava e così fondò una Compagnia tutta sua chiamata “La Dialettale“, con la quale recitava nei fine settimana e dove conobbe Caterina Franchi, in arte Rina Gaioni: si sposarono, e per 49 anni divisero sia la vita che la scena.

Govi se ne andò dall’Accademia il giorno in cui, convocato dai capi, questi gli dissero: ”Scegli: o noi o il dialetto“.
Fortunatamente per noi scelse quest’ultimo e, per la cronaca, trent’anni dopo l’Accademia lo nominò Socio Onorario.

Lina Volonghi era solita ripetere:
“Quando la gente e i critici lodano il mio senso di responsabilità e disciplina, lodano Gilberto Govi. Da lui ho imparato i tempi comici, il rispetto per il pubblico, il donarsi con estrema semplicità e grande sacrificio.”
Essendo entrata nella Compagnia da giovanissima, e provenendo da una famiglia semplice, senza studi e cultura teatrale, Govi fu per lei Maestro di vita: a Napoli, parliamo dei primi del ’900, la spedì a vedere i De Filippo definendoli “tre fratelli bravissimi che recitano al San Nazzaro: nessuno ancora li conosce fuori di Napoli, ma andrebbero proprio portati in trionfo perché sono bravi”.

E poi Carlo Campanini, che con Govi divideva l’amicizia di Macario; e poi ancora Walter Chiari, Paolo Stoppa, Dina Sassoli, Alberto Sordi,  che con lui girarono nel ‘47  Che tempi! (alias Pignasecca e Pignaverde).

Da queste e altre testimonianze risulta il vero carattere dell’uomo in modo più illuminante di un qualsiasi testo di critica teatrale, e indubbiamente del teatro Govi fu un mitico interprete.

Sì, fece anche cinema: oltre i film citati, anche  Colpi di timone con Sergio Tofano e  Il diavolo in convento girato nell’abazia di San Fruttuoso di Camogli assieme a Carlo Ninchi e Mario Pisu.
Film carini, ma niente a che vedere con il suo ambiente naturale, il palcoscenico.

Gilberto Govi fu accusato dalla critica ufficiale di essere un pigro che rappresentava sempre le stesse commedie: innanzitutto ciò non è vero, visto che in 50 anni di carriera “mise su” ben 81 commedie diverse.

E se la gente si diverte ancora oggi alla follia nel vedere in DVD Pignasecca e Pignaverde, Quello Buonanima, Colpi di timone, Sotto a chi tocca, Gildo Peragallo ingegnere e soprattutto il celeberrimo I manezzi pe majâ ‘na figgia, ciò significa che si tratta di testi validissimi e intramontabili.

Nel 1957 la televisione sperimentò la ripresa diretta delle sue commedie a teatro: fu un trionfo incredibile in tutta Italia, con record d’ascolti mai più raggiunti da altre rappresentazioni simili.

Ben sedici testi teatrali che riscossero un enorme successo di pubblico, e c’è da scommettere che se la Rai ne riproponesse oggi qualcuna lo share sarebbe ugualmente sorprendente perché, come disse il regista Vittorio Brignole:
“Govi davanti alle telecamere era diverso dal Govi davanti al suo pubblico? E’ una domanda che potrebbe essere rivolta a quelli che I Manezzi li hanno visti a dieci anni con la madre, a venti con la fidanzata, a trenta con la moglie, a quaranta con la figlia, a cinquanta con l’esperienza di una vita passata ad amare un attore, e non hanno trovato alcuna differenza”.

Il suo modo di gestire la  Compagnia era un capolavoro di piccola imprenditoria forma cooperativistica, in cui i guadagni venivano suddivisi fra gli attori e i tecnici; non godendo affatto di appoggi politici e sovvenzioni, bisognava amministrarla come una ditta.

Difatti Govi, con i suoi attori si comportava come un Presidente d’azienda: paziente, gentile ma senza dare la minima confidenza.

Tutti lo chiamavano Commendatore e il suo “voi” rivolto a loro era imperativo non per ordini di regime, ma perchè in genovese si usa così.
Ogni giorno si recava puntualissimo a teatro come si recasse in ufficio: finite le prove o le recite salutava e con la Rina se ne tornava a casa dai  cani, tutti amatissimi randagi da loro adottati.

Si comportava come un distinto professionista borghese che non parlava mai male dei colleghi, anzi si arrabbiava molto se qualcuno metteva in dubbio la bravura altrui; ma soprattutto detestava i pettegolezzi e le malignità, possedendo un sacro nonché raro (per l’ambiente) culto per il riserbo altrui.

Dicevano anche che fosse mostruosamente tirchio, leggendaria nomea affibbiata a tutti i genovesi.

Innanzi tutto si dice parsimonioso; magari era quello che se doveva comprarsi un paio di scarpe nuove cadeva in crisi e non amava sprecare miliardi in costumi od orpelli inutili di scena.
Era quello che con l’amico Amedeo Garbarino (mio bisnonno) al Circolo del Tunnel aveva inventato l’indimenticabile “gag” (presente poi in Pignasecca e Pignaverde) del sigàro fumato in verticale per farlo durare di più.

Però, di nascosto e senza andare a strombazzarlo in giro, quasi tutte le mattine chiamava il suo fido portinaio Lino e lo mandava a spedire “un assegno qua, un vaglia là“: tutta beneficenza destinata a colleghi in disarmo, ospedale Gaslini e associazioni per la protezione animali.

Il suo modo di recitare era unico.

Gli autori delle commedie come Bacigalupo (I manezzi), La Rosa (Colpi di timone), Acquarone (Bocce,  l’unica commedia recensita dalla “Gazzetta dello Sport“), Bassano (Il porto di casa mia) e altri, non avevano vita facile.
Govi ne rielaborava i testi, li traduceva in genovese e soprattutto aggiungeva battute: se vedeva che avevano successo, tra un atto e l’altro correva dal suggeritore e gli intimava “Questa, a copione!”.

Ovviamente non tutti ne erano felici: uno di questi, Carlo Bocca, dopo la prima di una sua commedia s’imbufalì talmente per le variazioni fatte che lo aspettò fuori da teatro e gli mollò un ceffone tremendo.
Morale, Govi incassò lo schiaffone, però  non mise mai più in scena una commedia di Bocca.

Durante la prima e la seconda guerra mondiale organizzò molti spettacoli per le forze armate, soprattutto in Emilia, terra d’origine dei suoi genitori; un carro di Tespi con sede a Bologna che portava la Compagnia a fare spettacoli nelle varie caserme dislocate nella regione.

Il palcoscenico veniva costruito di volta in volta con tavole, senza sipario, la platea regolare con migliaia di posti a sedere e i camerini, costruiti in legno come cabine balneari, con gli attaccapanni e il tavolino per il trucco.

Quest’ultimo per Govi era fondamentale: sfruttando la sua abilità pittorica, riusciva da solo e in mezz’oracambiarsi completamente i connotati.

Vari colori di cerone, matite grasse; manovrava con i pollici, spalmava, tirava, sfumava ed ecco venir fuori gli zigomi, spuntare il mento, sparire la gola.
Aveva di natura un viso grande un po’ quadrato:  col trucco lo faceva diventar piccolo e rotondo come una prugna secca.

Interpretando alcuni personaggi riusciva addirittura ad accorciare materialmente il suo corpo: al momento degli applausi finali si tirava su e si allungava di quindici centimetri.
Ma soprattutto erano gli occhi la sua grande forza espressiva: quelli non li truccava mai, li lasciava liberi di muoversi, ammiccare, luccicare come se avessero avuto una lampadina dentro.

Valeria Moriconi disse: ”Ho di Govi un ricordo nettissimo: in particolare dei suoi occhi e dei suoi incredibili sopraccigli; Govi parlava con tutto il suo modo di essere, parlava con le mani e parlava pure con i sopraccigli. Parlava pure quando stava in silenzio“.

Infatti bastava una sua occhiata per far esplodere dalle risate il pubblico e, più di una volta, anche gli altri attori in scena che andavano a “bagnomaria“, rischiando cioè l’amnesia totale e il soffocamento a causa di furiosi attacchi di ridarella trattenuta, poiché aveva la capacità di rendere teatralmente preziosi persino gli incidenti scenici e le famigerate “papere“.

Una volta rimase per un’ora in scena con una mosca che ronzava impazzita perché gli era rimasta imprigionata tra la “coccia” (parrucca dura e tonda come un elmetto) e la testa; non potendo darsi una manata sul cranio per schiacciarla né strapparsi pubblicamente la coccia, recitò in modo più agile, veloce e arzillo del solito costringendo tutti gli altri a seguirlo frenetici.

Un’altra volta, invece di dire “Facciamo un patto” disse “Facciamo un tappo“: per rimediare la topica si mise a parlare ininterrottamente di tappi e patti, inventando battute, improvvisando tanti di quei discorsi e gesti che alla fine il suggeritore stremato lanciò per aria il copione e se ne andò, mentre il pubblico esplodeva in un mega applauso a scena aperta.

A proposito di papere è rimasta memorabile quella di Sergio Fosco, marito di Anna Caroli (indimenticabile Cùmba, la donna di servizio nei Manezzi) e padre di  Gian Fabio (il futuro Gian della coppia comica con Ric); tutti e tre attori della Compagnia di Govi.

Stavano recitando Bocce al teatro Carignano; Govi lanciava la boccia sul pallino e Fosco doveva gridare entusiasta:
”Sciu padrun, bravìscimu: a vegne drita drita in sciu ballìn!” (“Signor padrone, bravissimo: viene dritta dritta sul pallino!”)

Ma quella sera cambiò in “e” la “a” del “ballìn“.

Tutti gli  attori fuggirono dal palcoscenico in preda a convulsi di riso e Govi, rimasto solo in scena,  urlò ridendo come un matto:
“Aleé! U savèivu che ‘na vota o l’atra ti l’avièsci dita!”, “Lo sapevo che una volta o l’altra l’avresti detta!”.

Fortunatamente erano a Torino, pochi compresero: e se anche ora qualcuno di voi non capisce, usi la fantasia. ;-)

La critica laureata accusò infine Govi di avere il “limite” del dialetto: oggi possiamo dire che in realtà il suo fu grande teatro, quello che si fa amare e comprendere dappertutto nonostante il linguaggio, come il veneziano di Baseggio, il milanese di Ferravilla o il napoletano dei De Filippo.
Govi rese allora comprensibile e famoso anche il genovese perché, con estrema naturalezza, aveva il dono di farsi capire non solo in tutta Italia, ma anche a Parigi Buenos Ayres.

E se lo spettatore non afferrava proprio tutto alla lettera, poco importava.

Pietro Palmieri
, altro attore della Compagnia, raccontava che dopo la rappresentazione di una commedia all’Odeon di Milano era andato a prendere un cappuccino al , un bar in Galleria:
“Lì vedo due signori che s’incontrano e l’uno dice all’altro: “Sei andato a vedere Govi? E cosa hai visto?”.
L’illuminante risposta fu:
So ‘na got, ma ho ridù tant, ridù tant, che rid anch’a mò“.

© Mitì Vigliero

Nota:

Libri consigliati: Lui, Govi di Cesare Viazzi (Sagep) – Il Teatro di Govi, S. Bassano (Erga)

Le immagini di Govi sono state tutte trovate in rete.

Qui invece ho trovato  tutta la commedia “I manezzi pe majâ ‘na figgia”: buon divertimento!