Antiche Estati Genovesi 3: Quando Si Passava Il Ferragosto in Città

I genovesi annata fine Ottocento primi Novecento non avevano grandi smanie per la villeggiatura e vivevano senza traumi persino il trascorrere l’agosto in città anche perché allora era considerato un mese come un altro, in cui la vita scorreva tranquilla e normale in quartieri non tappezzati da cartelli con su scritto “chiuso per ferie”.

(Castelletto)

Nessuno si annoiava; le lunghe, calde giornate venivano trascorse passeggiando verso le alture, arrivando sino a Castelletto per ammirare il panorama o salendo ancora verso il Righi. Si camminava lentamente per chilometri, carburati da sorbetti, fette di anguria o bicchieroni di limonata comprati nei chioschi o nelle miriadi di piccole osterie (molte poco più che baracchette di legno) che costeggiavano le falde del Monte.

(Righi)

Giù in città le mamme  portavano i bambini a vedere le rappresentazioni dei Teatri delle Marionette: celebri quelli di Campopisano a Sarzano e del Cincinina a Portoria ove tutti si sbellicavano alle avventure del Barudda e del Pipia.
Pure gli adulti andavano molto a teatro: al Sant’Agostino, alla Sala Sivori, al Colombo a Portoria e all’Alfieri sul Bisagno.

Certo le grandi Compagnie arrivavano in autunno, ma d’estate si poteva ugualmente assistere a recite di qualche buon gruppo amatoriale, che tra gli attori magari vantava dei giovanissimi Gilberto Govi e Rina Gajoni.

Fino al primo decennio del XX secolo (quando cioè divenne Festa Nazionale importata dai milanesi), i liguri chiamavano il Ferragosto Mëz’Agosto  e la festa dell’ Assunzione di Maria  era una ricorrenza importante per la città.

Ci si recava alla Basilica di Carignano ove si assisteva alla Messa solenne; la piazza era zeppa di bancarelle che vendevano  canestrelli, amaretti, fette di pateca, le collane di nocciole dette reste (quelle della Besagnina) , palloncini, girandole.

Lì si radunavano i cittadini  di ogni ceto, tutti insieme a gironzolare sulla piazza bardata a festa con bandierine marinare, godendo il profumo delle acacie e sorseggiando granite allo sciroppo di menta o d’amarena.

Si scatenavano poi i concerti musicali delle Bande Cittadine; a Carignano quella civile dei Pompieri e quella cattolica di Santa Zita, mentre quelle dei tre Reggimenti di stanza a Genova furoreggiavano, come ogni giorno festivo, nel verde dell’Acquasola.

Infine, nelle antiche estati genovesi, c’erano le gite in mare sul Campidoglio,  barcone della razza dei “pontoni” molto ben attrezzato; di giorno innalzava un maestoso granpavese multicolore e verso le ore 13, rimorchiato da un paio di barcacce a vapore, salpava da Ponte Morosini dirigendosi al largo.

Di sera s’illuminava di lampioncini di carta dentro ai quali brillava una candela stearica; un’orchestrina suonava, le persone ballavano, cantavano, ridevano attorno ai tavolini del buffet e a mezzanotte il pontone ritornava, scaricando a terra esausti passeggeri  frastornati da  salino, vento, danze e vino bianco.

© Mitì Vigliero 

Antiche Estati Genovesi 2: Quando s’andava a “prendere il bagno”

Antiche Estati Genovesi 1: Quando s’andava “in villa”

Placidi Perché Si Dice: Non c’è trippa per gatti

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(foto  © qui)

Modo di dire romanesco che in parole più eleganti significa “Non vi è alcuna speranza che una certa cosa venga concessa“.

Si usa soprattutto per negare qualcosa a qualcuno in modo molto deciso.

Risale ai primi del ‘900, quando il sindaco di Roma Ernesto Nathan cancellò dal bilancio del Comune l’acquisto mensile di trippa destinata a sfamare i felini che servivano a dar la caccia ai topi che infestavano il Campidoglio.

Poiché il costo della trippa era troppo alto, sul libro del Bilancio Comunale qualcuno scrisse pari pari la frase passata alla storia:
Nun c’è trippa pe’ gatti.

© Mitì Vigliero

Altri modi di dire o proverbi riguardanti i Gatti?

Luca: il gatto era nella stemma della potentissima famiglia dei Fieschi… e il grido delle truppe era GATTO GATTO GATTO

Graziano: Chi non ha il gatto mantiene i topi, e chi ce l’ha mantiene tutti e due.

Skip: I  gatti sono regalmente eleganti e misteriosi, istintivi, scelgono chi amare e non dipendono da nessuno, semplici nei loro bisogni primari ma eternamente cuccioli nei loro entusiasmi e curiosità, affascinanti quando ci osservano e sembrano capire…interlocutori attenti , muti eppur presenti ,abitudinari ma non facilmente addomesticabili.
Un gatto è un gentiluomo. Sotto quel pelo morbido si trova ancora uno degli spiriti più liberi del mondo. ( Eric Gurney )

Gianluca: procurarsi “Il libro dei gatti tuttofare” del sig. T.S.Eliot…tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, troppo facile…non dire gatto se non l’ha nel sacco…e poi guarda questo link

Krishel: Mitì spero che tu non abbia una gatta da pelare in questo momento…;-)

Perché si Dice: Pietra dello Scandalo

ringadora modena

I milanesi, per definire un’impresa economica finita male, dicono “finì cont el cü per tèrra”; i piemontesi restà a cul biòt” (nudo) e i genovesi dâ du cù in ta ciappa” (pietra).

In realtà questi modi di dire sono diffusi in tutta Italia, perché derivanti dalla stessa legge.

All’epoca di Cicerone infatti , i debitori insolventi e i commercianti falliti subivano come pena una spietata pubblica “esecuzione” che, se non toglieva loro fisicamente la vita, annientava ogni dignità personale tramite “morte civile”.

Venivano condotti nel Campidoglio e, esposti al pubblico ludibrio denudati dalla cintola in giù, obbligati alla “bonorum cessio culo nudo super lapidem”, ossia a cedere i loro beni (ai banditori d’asta) stando seduti a chiappe nude su una pietra.

Le “pietre dello scandalo” , dette anche “dell’infamia” o “dei fallimenti” erano sparse per tutto lo Stivale, non solo nelle grandi città, e alcune sono tutt’ora visibili.

Ad esempio a San Donato Valdicomino (Frosinone) esiste la cinquecentesca Pietra di San Bernardino (promotore dei Monti di Pietà), dove il debitore stava ininterrottamente seduto a natiche nude per un periodo di tempo proporzionato all’entità del suo debito.

A Rimini sotto il portico del Palazzo dell’Arengo, fra i banchi di banchieri e notai e dove pubblicamente veniva amministrata la giustizia, vi era un pietrone (lapis magnum) dove il condannato doveva battere tre volte e con violenza il sedere nudo gridando ogni volta come un mantra “Cedo bona!” (cedo i miei beni).

Ad Asti la pietra della vergogna si trova ora appesa in verticale nell’atrio del Palazzo Comunale; ma un tempo era nel centro della piazza principale, sede dei mercati.

A Genova si trovava nei pressi del Mercato del pesce e palazzo San Giorgio; a Bergamo era un sedile attaccato ad una delle due colonne che si trovavano in Piazza Vecchia; a Milano si trovava in Piazza Mercanti, ed era un blocco di granito nero.

La pena a Firenze aveva un nome preciso, “l’Acculata”, e si svolgeva nella Loggia del Porcellino nel Mercato Nuovo; la pietra era quel cerchio di 6 spicchi di marmo tutt’ora visibile e che rappresenta in dimensione reale la ruota del Carroccio, simbolo della legalità.

Qui il Magistrato del Bargello, scegliendo le ore in cui il mercato era strapieno, scandiva a voce alta il nome del condannato e il motivo della pena; al tapino poi venivano calate le braghe, era afferrato per braccia e gambe, fatto oscillare sulla folla “ostentando pubenda” e infine, fra i frizzi e lazzi della folla, lasciato caderepercutiendo lapidem culo nudo”.

Infine a Modena erano cattivissimi; usavano la pietra “ringadora”, quel gigantesco blocco di marmo rosso veronese che ora è posto all’angolo del Palazzo Comunale in piazza Grande.

Un’ordinanza dello Statuto Cittadino del 1420 prescriveva che il colpevole dovesse essere lì condotto per 3 consecutivi sabati (giorno di mercato), fare 3 volte il giro della piazza preceduto da trombettieri che attirassero l’attenzione e a ogni giro fosse spinto a ”dare a culo nudo su la petra rengadora la quale sia ben unta da trementina”, per farlo bruciare non solo di vergogna.

© Mitì Vigliero