Antiche Estati Genovesi 1: Quando S’Andava In Villa

(Antonio Schiaffino)

La signora Giggia, moglie di Steva nella commedia I maneggi per maritare una figlia, volteggiando affannata in mezzo ai bagagli ingombranti il salotto Luigi Filippo, annunciava in tono superbo “Oggi noi si va in villa”.
E Steva-Govi ribatteva “Villa! Bisogna vedere che roba. Ragni, mosche e sinsae . Cosa c’è di zanzare! Dice che è l’acqua. L’anno passato siamo stati quindici giorni senz’acqua, andavamo a prenderla in un paese vicino: l’aegua a no gh’ea, ma e sinsae scì. Erano lì che aspettavano l’acqua.”

La “villa”, per i genovesi di allora, era la casa color pastello polveroso, spesso arricchita d’una torretta, sita nell’entroterra e circondata da un terreno più o meno vasto; che fosse la grande tenuta d’antica proprietà familiare, la palazzina presa in affitto o semplicemente la fattoria della vecchia balia non importava: dopo luglio, “mese dei bagni“, quasi tutte le famiglie si trasferivano da Genova in campagna.

(Montoggio)

E “campagna” allora era ovunque. A Novi, Serravalle, Busalla andava di solito la grande borghesia industriale; tra Masone e Ovada si sistemavano le famiglie di avvocati, medici e docenti universitari; Voltaggio, Mignanego, Savignone e Sarisola erano le mete preferite dai commercianti. Ma anche Sant’Olcese, Crocefieschi, Montoggio, Bargagli, Torriglia, Fontanigorda, Gorreto erano affollatissime, così come la zona del Righi e le valli di Staglieno e Molassana. Persino Marassi e Quezzi, pare incredibile, erano veri gioielli di verde, pieni di ville borghesi ma anche di palazzi nobiliari circondati da parchi e il Fereggiano scorreva limpido e vivace in una Valletta bellissima, creando un paesaggio bucolico-alpestre da cartolina.


(Pieve di Sori)

I genovesi raggiungevano la campagna con treni, vetture, tramvaietti, omnibus, carrozze e carri.
Orlando Grosso, raffinato giornalista che scriveva sulla “Gazzetta di Genova” all’inizio del Novecento, raccontava: “S’incontrano muli che portano bauli sul basto e buoi che trainano, per sassose salite, slitte cariche di masserizie, perché l’andare in campagna assume spesso l’aspetto di un mezzo trasloco. Sui cumuli di cesti, di involti, di bauli, si trovano canarini in gabbia e gatti che miagolano entro cestini: un vero esodo familiare”.


(Sassello)

La prima settimana trascorsa in villa era iperattiva; le padrone di casa, assoldate le donne del luogo, si lanciavano  frenetiche a  spazzar via ragnatele e polveri ammassate durante l’inverno. Una volta che tutto era pulito e ordinato, la vita piombava in una tranquillità un po’ assonnata interrotta da minimi avvenimenti: visite di amici arrivati dalla città alla ricerca di un po’ di frescura; chiacchiere fatte all’ombra dei pergolati di fronte ad un bicchiere di sciroppo d’amarena; interminabili partite a bocce, alla morra, a volano.
E piccole feste accompagnate dal suono di una fisarmonica, pranzi e cene scandite dal rintocco delle campane di mezzogiorno e dell’Ave Maria; raccolta di frutta con conseguenti confezioni di marmellate e liquorini casalinghi in quantità industriale, oltre beati, interminabili ozi in giardino.

(Scoffera)

Da notare che in villa stavano fisse le donne e i bambini; i mariti-padri restavano in città a lavorare, perché un mese di ferie allora era considerato una follia: era credo comune che solo i maschi malaticci e fannulloni potessero permettersi più di quattro giorni di vacanza filati… Così ogni sabato sera, per ripartire la domenica, i sani e ligi lavoratori raggiungevano le loro tribù familiari con quelli che venivano scherzosamente chiamati “i treni dei mariti”.
Gli scompartimenti di tutte e tre le classi brulicavano di uomini soli, appartenenti ad ogni ceto sociale, ma tutti indistintamente carichi di pacchi contenenti le mille cose che le loro gentili consorti avevano ordinato: “Ricordati di portarmi del filo di seta azzurro e dei guanti di cotone, e già che ci sei della liscivia, che qui costa troppo, sai che il negozio ne approfitta perché è l’unico; e poi compra degli acquerelli per tua figlia, li ha finiti, e prendi dal comò quella mia camicietta lilla, quella in seta, sì, ché l’ho dimenticata…”.

(Traso)

Il viaggio trascorreva sereno, fra chiacchiere di affari, donne, pettegolezzi, dritte di Borsa, antiquariato e commenti sul governo. Alla stazione i viaggiatori trovavano ad attenderli, schierati come plotoni, figli e mogli: e ogni volta i mariti non si sentivano solo Capofamiglia, ma Sovrani.
Mentre le donne in villa trascorrevano il tempo cucendo, lavorando al tombolo, dipingendo, pirografando, insomma trafficando perennemente come api laboriose, i signori andavano per funghi, ma soprattutto si dedicavano alla caccia.
Bardati con braghe di tela e cappellaccio di feltro guarnito da una piuma di ghiandaia, col fucile in spalla e il fido bracco al guinzaglio, setacciavano ogni prato, cespuglio, boschetto, alla ricerca di prede. E di solito tornavano a casa sudati, stravolti e col carniere vuoto, narrando alla prole di starne grosse come aquile o lepri di dimensioni elefantesche, sfuggite alla mira per colpa del vento, del cane, delle cartucce, del Padreterno in vena di dispetti…

(Giovo Ligure)

Ma in quei soggiorni antichi, in quelle vecchie ville, i nostri nonni stavano bene nonostante non vi fosse nessuna comodità moderna: niente acqua corrente o elettricità; una ghiacciaia rifornita quindicinalmente; un pozzo; dei bigonci per il bucato e il vasino nel comodino da notte, in quel famoso ghirindon dove Steva trova chiuso il suo gilet (il gibbonetto di “gassetta e pomellu”) e, dopo averlo annusato con faccia nauseata, si sente dire dall’amorevole Giggia : “E dagghe un po’ de Colonia…”.

Gilberto Govi - Gassetta e Pumello Da I Maneggi per maritare una figlia - YouTube

© Mitì Vigliero

La Bucolica Quiete: sfatiamo un mito

Un brano tratto dal mio romanzo In campagna non fa freddo.

Per facilitare la lettura dirò, in poche parole, che si tratta della storia di una famiglia fermamente decisa ad abbandonare l’inquinata, fracassona e caotica città, per trasferirsi nell’avita Casa di campagna.

I personaggi qui citati sono Bianca, la narratrice. Suo marito Leo, il vero maniaco della campagna. Camilla, la loro figlia settenne. Zia Rachele, che li aiuta nell’impresa. Ginotta, l’anziana custode della Vecchia Casa.

*

“Come fa quella poesia sulle campane? Mi dicono dormi, sussurrano dormi, bisbigliano dormi, maledizione suonano ogni quarto d’ora e non mi lasciano dormire…” ringhiavo di notte girandomi nel letto come una trottola.
Quello era un paese di ottocento abitanti in cui esistevano, fra chiese, chiesette, cappelle, cappellette e cappelline circa quindici campanili, ciascuno dotato di una spiccata personalità.

C’erano quelli Equilibrati, che battevano regolarmente i quarti d’ora, le mezz’ore e le ore. Poi c’erano i Follattoni, che a ogni ora battuta facevano seguire uno scampanio inconsultamente brioso, seguiti dai Depressi, che precedevano ogni ora con un lugubre battito a morto. Infine venivano i Confusionari, che alle dieci battevano cinque colpi, alle cinque due colpi e un tocchetto, a mezzogiorno ne sparavano trentasei.

Di notte, per fortuna, restava in funzione solo il campanile della Chiesa Grande il quale, però, pur essendo di solito un Equilibrato, possedeva un’irritante caratteristica: quand’ero a letto insonne nel cuore della notte e per puro masochismo avrei voluto sapere che cavolo di ore fossero, lui – che sino a poco prima m’aveva assordato – improvvisamente taceva.
“Si comporta così perché è gentile e vuole che ti addormenti col silenzio” diceva Leo.
Infatti, appena riuscivo ad assopirmi, quello festeggiava l’avvenimento ricominciando a scampanare veemente e entusiasta.

Ma se al suono dei sacri bronzi, col tempo, ci si può far l’abitudine, esistevano altri notturni baccanali ai quali fu per noi assolutamente impossibile assuefarci.

Ricordo la prima estate trascorsa in Casa; un luglio torrido e canicolare in cui era vitale dormire con le finestre spalancate. E ogni notte che Dio mandava in terra, venivamo svegliati dal passaggio di enormi, smisurati ma velocissimi autoarticolati con tanto di scritta “trasporto eccezionale” i quali avevano scoperto che, tagliando per il paese, riuscivano a risparmiare un po’ di chilometri.

Nessuno può immaginare il rumore tremendo che emettono quei bestioni quando transitano fuori dalle autostrade: sembrava un terremoto ogni volta e dato che erano immensi, passavano a pelo tra le case. Inoltre, se i più lunghi s’incastravano con regolarità nella stretta curva che conduce alla provinciale, i più alti sradicavano ogni volta il balcone della casa di fronte alla nostra.
Una notte uno di quei giganti che trasportava un carico di maiali vivi, sbagliò la curva della piazza e andò a schiantarsi contro la facciata del Comune; i poveri suini si seminarono impazziti dal terrore per tutto il paese, tranne due che rimasero defunti in mezzo alla strada. I setolosi cadaveri scomparvero subito e, qualche tempo dopo, nel negozio della Franca vi fu una vendita straordinaria di salsicce, costolette, lardo e cicciolata a ottimi prezzi.

Un’altra volta, era settembre, alle due del mattino ci svegliammo di soprassalto a causa di un terrifico nonché misterioso rumore.

Quella sera zia Rachele, causa il maltempo, era si era fermata e dormire da noi; perciò ci trovammo simultaneamente tutti e quattro in preda al batticuore, affacciati alle finestre delle nostre rispettive camere.

Il frastuono proveniva dalla curva che portava al torrente e avanzava tumultuante, minaccioso, amplificandosi con rapidità.

”E’ straripato il torrente” urlai tentando di superare il fragore lacerante
“Le acque d’un torrente potranno forse muggire, ma di certo non suonano tamburi e campanacci” strillo Leo in risposta.

A un tratto, da dietro la curva, nell’oscurità apparvero tre uomini con stivali e cappellaccio in testa, che battevano ritmicamente dei tamburi. Dietro di loro due, quattro, dieci, trentasette, novanta, centocinquanta mucche con al collo enormi campanacci; tra loro altri uomini stivaluti e cappelluti, che percuotevano latte e coperchi.

“E’ la transumanza!” gridò entusiasta Rachele “Tornano dagli alpeggi al piano, settembre andiamo è tempo di migrar…”
“Perché diavolo picchiano sui tamburi?” sbraitò Camilla di pessimo umore, come sempre quando veniva svegliata di botto, guardando con occhio truce la frastornante marea che sfilava lentamente sotto Casa.
“Credo per mantenere il ritmo, per rimanere svegli…” rispose Leo.
“Svegli loro, svegli tutti, eh?”  mugugnai ferocemente convinta che, se l’Imaginifico fosse stato qui, di certo avrebbe spaccato il bastone d’avellano sul cranio di quei mandriani casinisti.

Però, talvolta, in campagna esiste davvero il silenzio. Silenzio che in una Casa come questa è rumorosissimo.
Il legno dei vecchi mobili e delle travi d’improvviso emette scricchiolii tanto violenti da sembrare spari. Per Leo si tratta di tarli, per Ginotta “a sun le anime del Purgatori ch’a ciamàn preghiere”.

E spesso, nelle stanze semibuie, accade di captare con gli angoli degli occhi ombre sfuggenti: topi o fantasmi?

Le antiche terre come questa sono impregnate di vita altrui. E’ impossibile che i vivi passati, così tanto legati al loro suolo, non abbiamo lasciato qualcosa: non può esistere impermeabilità, quando ci sono muri così umidi.

Per questo di notte in Casa si sentono ovunque sussurri, tonfi, scricchiolii, scalpiccii, schiocchi. Per questo di notte dal cortile e dal giardino giungono arcani borbogli, rugghi, strosci, mormorii, tonfi, ciottolii, ronzii, scricchi, stropicciamenti, zirlii. E’ un continuo pissi pissi, cric cric, taf tunf, tuppete tappete, tic tac, tri tri. Altro che solingo fru fru tra le fratte: qui rumoreggia un intero universo.

Al di là del muro che circonda il giardino, ci sono i campi; nel centro dei campi una chiesina minuscola con un minuscolo campanile dedicata a Maria del Formenton, la Madonna del Granturco.

E d’estate, di notte, dai campi giungono raccapriccianti sospiri ansimanti.

La gente dice che lì, anni e anni fa, vi fu una cruenta battaglia che lasciò sul terreno decine e decine di morti, i quali vennero seppelliti in quegli stessi campi sotto la protezione della Madonna.

La gente dice anche che, sino a sessant’anni fa, si vedevano i fuochi fatui uscire dal terreno nelle notti d’estate e che i sospiri ansimanti –  gli “sbanfà de mort”- si son sempre sentiti.

Mio padre, ascoltandoli una sera, risolse il mistero.
“Macché morti! Li abbiamo anche noi al mare, quei sospiri. Li emette un piccolo rapace notturno, una specie di civetta che fa il nido sull’alto delle torri o dei campanili e nel periodo dell’accoppiamento lancia quello strano richiamo.”

Ma per noi rimasero sempre i sospiri dei morti, le cui anime tristi imploravano una carezza della Signora del Formenton.”

© Mitì Vigliero

Indovinate: comincia per Gal e finisce per òp

Dopo aver trascorso l’estate ferma qui a lavorare, con l’avvento del nuovo anno ovviamente ricomincio il mio galòp per lo Stivale.

Ricordate il trasloco n° 5? E poi il n° 6, tutti i mobili e le casse spedite nella bucolica magione immersa fra la quiete della campagna laziale ?

Ebbene, se ne stan lì dai primi di luglio, in fremente attesa che io vada giù a disfarle e sistemarne il contenuto nei suddetti mobili (oltre che in qualunque anfratto della casa, sfidando ogni legge fisica di contenimento).

Il bello è che non ricordo assolutamente cosa diavolicchio contengano quelle casse, riempite al galòp al momento dello svuotamento con qualsiasi cosa mi sembrasse “troppo bella per rinunciarci” o “decisamente utile da usarsi nella casa giù” o “questo interessa di certo i miei cognati / miasuocera/ mienipoti”.

Insomma, sarà una piacevole sorpresa ogni apertura di quelle 30 casse , che svolgerò da martedì (oggi e domani Bologna, tanto per veder se la casa con Zia incorporata è ancora in piedi) galoppando volteggiante come una libellulona su e giù per i 3 piani di scale (a chiocciola, pericolosissime) e galoppando avanti e indré fra casa nostra e quella dei cognati, tenendo leggiadramente impilate fra le braccia centinaia di masserizie varie, mentre 7 gatti e una grossa cana (non trovo la foto, gliela farò) bianca e lievemente bamba saltelleranno frenetici fra le mie gambe giocando felici a “Chi riuscirà per primo a farla sbattere a faccia in giù per terra?“…

Orsù, dite che mi invidiate tanto tanto tanto e che vorreste essere al mio posto!

…Silenzio di tomba

Che razza di Tesorimiei siete, ad abbandonarmi così nel momento del periglio e della fatica? ;-)

Vabbé ho capito, galopperò da sola.

E talvolta tenterò di affacciarmi qui, coi soliti scarsissimi risultati dati dalla bucolica connessione lievemente bamba pure lei, oltre che estremamente capricciosa.
Perciò non preoccupatevi se non posterò né risponderò sollecita a mail, commenti, telefonate (non funziona nemmanco il cellulare, là)

Per ora vi lascio in compagnia del Placidotumblr da sfogliare, e vado a riempire l’ultima valigia con tutte  quelle cosette  che dovrebbero salvarmi la vita in caso di mozzicate delle bucoliche bestiacce.

Perché proprio oggi mi han fatto sapere che in giardino da noi, proprio per proteggermi, è stato messo il seguente cartello:

Voi intanto fate i bravi, eh?
A presto, e baci al galòp

Mitì