San Terenzo, Villa Magni, Gli Scandalosi Foresti Inglesi E Un Cuore di Poeta

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San Terenzo all’inizio dell’Ottocento era semplice borgo di pescatori attaccato a Lerici; dal mare si riconosceva subito grazie a Villa Magni, bianca romantica casa col porticato posato sulla spiaggia.

vederla ora quella Villa, quasi non la si riconosce.

Davanti ad essa non più mare ma una strada, costruita alla fine del XIX secolo e nei giorni estivi solitamente strapiena di auto.

Eppure ancora oggi attorno ad essa aleggia una strana, malinconica atmosfera di poesia.

Percy Bysshe Shelley

(Shelley)

Fu lì che, nell’aprile del 1822, si stabilirono Percy Bysshe Shelley , sua moglie Mary, incinta; la sorellastra di Mary, Claire Clermont, gli amici Edward e Jane Williams, e Edward John Trelawny.

Il loro arrivo gettò immediato scompiglio fra la gente semplice del posto.

Shelley era già famoso ed idolatrato poeta, ma ai santerenzini poco caleva dei successi letterari.
A loro quel gruppo di inglesi sembrava semplicemente un gruppo di pazzoidi; da quando erano arrivati quella casa s’era tramutata in una sorta di blasfemo santuario, con un pellegrinaggio continuo di gente fracassona e strana, venuta ad omaggiare il Poeta e la sua bizzarra “comune”.

Mary Shelley

(Mary Shelley)

Era soprattutto la vita privata di quest’ultima che li stupiva; ad esempio non capivano come potessero stare tutti insieme nell’unico piano della Villa, in quattro piccole stanze e una sala-ingresso, senza neanche un arredamento decente.

Chi c’era stato raccontava che dormivano per terra, su vecchi pagliericci. Che mangiavano poco e in maniera disordinata; litri di tè, frutta, un po’ di pane e tanto laudano, la droga di allora.

E poi, cosa scandalosissima, giravano nudi tutto il giorno sulla terrazza, fra gli scogli, in casa, in riva al mare.
Ma non solo; in paese si mormorava pure che Shelley andasse a letto, oltre che con la moglie, anche con Miss Jane e Clara, quella strana cognata che viveva con loro da sempre…

Edward John Trelawny

(Edward John Trelawny)

No, non eran cose da gente perbene.
Infatti, in tutto il periodo della loro dimora, gli Shelley impazzirono a trovare personale di servizio: nessuna persona timorata d’Iddio avrebbe potuto o voluto avere contatti con loro, che a Villa Magni vivevano come su un pianeta a parte.

Jane suonava ininterrottamente la chitarra, gli altri oziavano o pescavano mentre Shelley, l’unico effettivamente felice di vivere lì e così, componeva i “Versi scritti nella baia di Lerici”.

villa magni shelley

Mary invece era sempre malinconica, piena di ansie e paure; in quel periodo perse anche il bambino che aspettava.

E quando vide per la prima volta l’Ariel – la barca a vela che tanto piaceva al marito – ebbe un vera crisi isterica, colpita da un’improvvisa nera angoscia che non seppe  spiegare.

Con quella barca Shelley salpò da San Terenzo il I° luglio, diretto a Livorno dall’amico Byron.
Ne ripartì l’8. Scoppiò una burrasca. Non tornò mai a Villa Magni.

Il suo corpo fu ritrovato il 18, sulla spiaggia di Viareggio; lì venne cremato su una pira bagnata d’olio e vino come un antico eroe ellenico. Bruciò tutto tranne il cuore, che Trelawny strappò alle fiamme.

Il 22 settembre una carrozza diretta a Genova trasportava Byron e Mary Shelley; sulle ginocchia di lei, un cofanetto contenente un cuore di poeta.

© Mitì Vigliero

The_Funeral_of_Shelley_by_Louis_Edouard_Fournier

(The Funeral of Shelley Louis Edouard Fournier)

Un cuore di Poeta: Villa Magni e gli Scandalosi Shelley

San Terenzo all’inizio dell’Ottocento era semplice borgo di pescatori attaccato a Lerici; dal mare si riconosceva subito grazie a Villa Magni, bianca romantica casa col porticato sul mare.

A vederla ora quella Villa, quasi non la si riconosce.
Davanti ad essa non più mare ma una strada, costruita alla fine del XIX sec. e nei giorni estivi solitamente strapiena di auto.

Eppure ancora oggi attorno ad essa aleggia una strana, malinconica atmosfera di poesia.

Fu lì che, nell’aprile del 1822, si stabilirono Percy Bysshe Shelley , sua moglie Mary, incinta; la sorellastra di Mary, Claire Clermont, gli amici Edward e Jane Williams, e Trelawny.

Il loro arrivo gettò immediato scompiglio fra la gente semplice del posto.

Shelley era già famoso ed idolatrato poeta, ma ai santerenzini poco caleva dei successi letterari.
A loro quel gruppo di inglesi sembrava semplicemente un gruppo di pazzoidi; da quando erano arrivati quella casa s’era tramutata in una sorta di blasfemo santuario, con un pellegrinaggio continuo di gente fracassona e strana, venuta ad omaggiare il Poeta e la sua bizzarra “comune”.

Era soprattutto la vita privata di quest’ultima che li stupiva; ad esempio non capivano come potessero stare tutti insieme nell’unico piano della Villa, in quattro piccole stanze e una sala-ingresso, senza neanche un arredamento decente.

Chi c’era stato raccontava che dormivano per terra, su vecchi pagliericci. Mangiavano poco e in maniera disordinata; litri di tè, frutta, un po’ di pane e tanto laudano, la droga di allora.

E poi, cosa scandalosissima, giravano nudi tutto il giorno sulla terrazza, fra gli scogli, in casa, in riva al mare.
Non solo; si mormorava pure che Shelley andasse a letto, oltre che con la moglie, anche con Miss Jane e Clara, quella strana cognata che viveva con loro da sempre…

No, non eran cose da gente perbene.
Infatti, in tutto il periodo della loro dimora, gli Shelley impazzirono a trovare personale di servizio: nessuna persona timorata d’Iddio avrebbe potuto o voluto avere contatti con loro, che a Villa Magni vivevano come su un pianeta a parte.

Jane suonava ininterrottamente la chitarra, gli altri oziavano o pescavano mentre Shelley, l’unico effettivamente felice di vivere lì e così, componeva i “Versi scritti nella baia di Lerici”.

Mary invece era sempre malinconica, piena di ansie e paure; in quel periodo perse anche il bambino che aspettava.

E quando vide per la prima volta l’Ariel – la barca a vela che tanto piaceva al marito – ebbe un vera crisi isterica, colpita da una nera angoscia che non sapeva spiegare.

Con quella barca Shelley salpò da San Terenzo il I° luglio, diretto a Livorno dall’amico Byron. Ne ripartì l’8. Scoppiò una burrasca. Non tornò mai a Villa Magni.

Il suo corpo fu ritrovato il 18, sulla spiaggia di Viareggio; lì venne cremato su una pira bagnata d’olio e vino come un antico eroe ellenico: bruciò tutto tranne il cuore, che Trelawny strappò alle fiamme.

Il 22 settembre una carrozza diretta a Genova trasportava Byron e Mary Shelley; sulle ginocchia di lei, un cofanetto contenente un cuore di poeta.

©Mitì Vigliero

Storia della Cravatta

 

I primi ad indossarla furono i legionari romani stanziati nelle regioni del Nord Europa; una striscia di tessuto detta focale stretta attorno al collo con un nodo, lasciando pencolare i due capi sul petto e che serviva soprattutto a ripararsi dal freddo.

La cravatta vera e propria, con mera funzione ornamentale, nacque solo all’inizio del 1600: una larga striscia di lino bianco o rosso : la kravatska  (dallo slavo krvat, croato) che faceva parte della divisa delle milizie croate al soldo di Luigi XIV.

Aveva un significato romantico; si trattava del dono fatto da mogli, fidanzate e amanti ai soldati che partivano per la guerra in territori lontani: legato al collo era testimonianza di legame e segno di fedeltà verso la donna amata. 

Sino agli inizi del ‘700, questo modello conosciuto anche come fasciola era indossata solo da religiosi, medici e anziani professionisti; gli altri preferivano lo jabot, una pettorina di pizzo arricciato o plissettato.

Durante il Direttorio, i nobili avvolgevano attorno al collo larghi foulard candidi mentre i rivoluzionari – in aperta polemica – ne sfoggiavano di neri che simboleggiavano “dannazione eterna”.

La cravatta più simile alla nostra moderna risale all’800: una stretta striscia di seta passata sotto il colletto della camicia e di solito annodata con un fiocco sul davanti.

Il “come” annodare il fiocco si tramutò in una questione altamente estetica e modaiola, tanto che in quel periodo vennero pubblicati innumerevoli manuali riguardanti “l’arte di annodarsi la cravatta”; uno di questi fu scritto da Honoré de Balzac.

Una delle cravatte più in voga allora fu quella detta alla Byron; il celebre poeta infatti la portava non sotto il colletto, ma appoggiata alta sulla nuca, passata attorno al collo subito sotto il mento avvolgendo le due estremità in un grande fiocco mai largo meno di dieci centimetri e terminate con due grandi cocche. Questa cravatta veniva usata soprattutto dai letterati, Leopardi in testa.
In compenso quella alla Lord Brummel fasciava completamente e “spessamente” il collo, stile medicazione dopo un colpo di frusta.
 
Alla fine del XIX secolo , in piena Belle Epoque, la stella del varietà francese Ève Lavallière (1866-1929), che si chiamava in realtà Eugenia Fenoglio ed era figlia di un sarto italiano emigrato a Parigi, lanciò quel tipo di cravatta larga e svolazzante che in suo onore venne chiamata alla Lavallière e che piaceva moltissimo a  pittorisocialisti; gli anarchici invece allora preferivano distinguersi indossando una cravattina nera terminante con due palline.

Ma alla fine del secolo nacque l’uso di lasciare le cocche del fiocco sempre più lunghe, tanto che questo scomparve lasciando il posto al solo nodo, come nelle nostre cravatte odierne; e anche lì nacquero grandi studi sull’arte di farli, quei nodi:

Molti invece, non volendo rinunciare al fiocco, adottarono il papillon, detto anche cravattino o farfallino: un fiocchetto rigido in tessuto pregiato, oggi usato soprattutto con abiti eleganti. 

©Mitì Vigliero