La signora Giggia, moglie di Steva nella commedia I maneggi per maritare una figlia, volteggiando affannata in mezzo ai bagagli ingombranti il salotto Luigi Filippo, annunciava in tono superbo “Oggi noi si va in villa”.
E Steva-Govi ribatteva “Villa! Bisogna vedere che roba. Ragni, mosche e sinsae . Cosa c’è di zanzare! Dice che è l’acqua. L’anno passato siamo stati quindici giorni senz’acqua, andavamo a prenderla in un paese vicino: l’aegua a no gh’ea, ma e sinsae scì. Erano lì che aspettavano l’acqua.”
La “villa”, per i genovesi di allora, era la casa color pastello polveroso, spesso arricchita d’una torretta, sita nell’entroterra e circondata da un terreno più o meno vasto; che fosse la grande tenuta d’antica proprietà familiare, la palazzina presa in affitto o semplicemente la fattoria della vecchia balia non importava: dopo luglio, “mese dei bagni“, quasi tutte le famiglie si trasferivano da Genova in campagna.
E “campagna” allora era ovunque. A Novi, Serravalle, Busalla andava di solito la grande borghesia industriale; tra Masone e Ovada si sistemavano le famiglie di avvocati, medici e docenti universitari; Voltaggio, Mignanego, Savignone e Sarisola erano le mete preferite dai commercianti. Ma anche Sant’Olcese, Crocefieschi, Montoggio, Bargagli, Torriglia, Fontanigorda, Gorreto erano affollatissime, così come la zona del Righi e le valli di Staglieno e Molassana. Persino Marassi e Quezzi, pare incredibile, erano veri gioielli di verde, pieni di ville borghesi ma anche di palazzi nobiliari circondati da parchi e il Fereggiano scorreva limpido e vivace in una Valletta bellissima, creando un paesaggio bucolico-alpestre da cartolina.
I genovesi raggiungevano la campagna con treni, vetture, tramvaietti, omnibus, carrozze e carri.
Orlando Grosso, raffinato giornalista che scriveva sulla “Gazzetta di Genova” all’inizio del Novecento, raccontava: “S’incontrano muli che portano bauli sul basto e buoi che trainano, per sassose salite, slitte cariche di masserizie, perché l’andare in campagna assume spesso l’aspetto di un mezzo trasloco. Sui cumuli di cesti, di involti, di bauli, si trovano canarini in gabbia e gatti che miagolano entro cestini: un vero esodo familiare”.
(Sassello)
La prima settimana trascorsa in villa era iperattiva; le padrone di casa, assoldate le donne del luogo, si lanciavano frenetiche a spazzar via ragnatele e polveri ammassate durante l’inverno. Una volta che tutto era pulito e ordinato, la vita piombava in una tranquillità un po’ assonnata interrotta da minimi avvenimenti: visite di amici arrivati dalla città alla ricerca di un po’ di frescura; chiacchiere fatte all’ombra dei pergolati di fronte ad un bicchiere di sciroppo d’amarena; interminabili partite a bocce, alla morra, a volano.
E piccole feste accompagnate dal suono di una fisarmonica, pranzi e cene scandite dal rintocco delle campane di mezzogiorno e dell’Ave Maria; raccolta di frutta con conseguenti confezioni di marmellate e liquorini casalinghi in quantità industriale, oltre beati, interminabili ozi in giardino.
(Scoffera)
Da notare che in villa stavano fisse le donne e i bambini; i mariti-padri restavano in città a lavorare, perché un mese di ferie allora era considerato una follia: era credo comune che solo i maschi malaticci e fannulloni potessero permettersi più di quattro giorni di vacanza filati… Così ogni sabato sera, per ripartire la domenica, i sani e ligi lavoratori raggiungevano le loro tribù familiari con quelli che venivano scherzosamente chiamati “i treni dei mariti”.
Gli scompartimenti di tutte e tre le classi brulicavano di uomini soli, appartenenti ad ogni ceto sociale, ma tutti indistintamente carichi di pacchi contenenti le mille cose che le loro gentili consorti avevano ordinato: “Ricordati di portarmi del filo di seta azzurro e dei guanti di cotone, e già che ci sei della liscivia, che qui costa troppo, sai che il negozio ne approfitta perché è l’unico; e poi compra degli acquerelli per tua figlia, li ha finiti, e prendi dal comò quella mia camicietta lilla, quella in seta, sì, ché l’ho dimenticata…”.
(Traso)
Il viaggio trascorreva sereno, fra chiacchiere di affari, donne, pettegolezzi, dritte di Borsa, antiquariato e commenti sul governo. Alla stazione i viaggiatori trovavano ad attenderli, schierati come plotoni, figli e mogli: e ogni volta i mariti non si sentivano solo Capofamiglia, ma Sovrani.
Mentre le donne in villa trascorrevano il tempo cucendo, lavorando al tombolo, dipingendo, pirografando, insomma trafficando perennemente come api laboriose, i signori andavano per funghi, ma soprattutto si dedicavano alla caccia.
Bardati con braghe di tela e cappellaccio di feltro guarnito da una piuma di ghiandaia, col fucile in spalla e il fido bracco al guinzaglio, setacciavano ogni prato, cespuglio, boschetto, alla ricerca di prede. E di solito tornavano a casa sudati, stravolti e col carniere vuoto, narrando alla prole di starne grosse come aquile o lepri di dimensioni elefantesche, sfuggite alla mira per colpa del vento, del cane, delle cartucce, del Padreterno in vena di dispetti…
Ma in quei soggiorni antichi, in quelle vecchie ville, i nostri nonni stavano bene nonostante non vi fosse nessuna comodità moderna: niente acqua corrente o elettricità; una ghiacciaia rifornita quindicinalmente; un pozzo; dei bigonci per il bucato e il vasino nel comodino da notte, in quel famoso ghirindon dove Steva trova chiuso il suo gilet (il gibbonetto di “gassetta e pomellu”) e, dopo averlo annusato con faccia nauseata, si sente dire dall’amorevole Giggia : “E dagghe un po’ de Colonia…”.