Storia dei Fiammiferi: due secoli di fuoco e stragi

Il fosforo venne scoperto nel 1669 dal tedesco Brand, che lo ricavò dalle urine (sic) facendole evaporare e riscaldando poi il residuo secco.
Nel 1680 il chimico Haukwitz fu il primo ad avere l’idea di usarlo per dare fuoco a un pezzetto di legno impregnato di zolfo; l’idea era buona, ma le ustioni furono gravissime.

Esperimenti simili fatti nel tentativo di ottenere il fuoco furono tentati per almeno due secoli, attraverso l’impiego di fosforo, cere, zolfo, acidi, liquori, solventi, ma i risultati furono sempre catastrofici.

Nel 1805 Chancel ideò il “fiammifero chimico”: un bastoncino di legno impregnato di zolfo che aveva all’estremità una pallina composta di clorato di potassio e zucchero.
Per accendere la capocchia, bastava immergerla in un barattolo di acido solforico; in tal modo il fuoco si appiccava immediatamente ad essa e  anche al barattolo di acido solforico.

(©Martin Kenny)

Il tedesco Giacomo Federico Kammerer allora creò il “fiammifero fosforico”; il solito bastoncino di legno inzolfato, la cui capocchia era però formata da una miscela di fosforo, solfuro di antimonio, clorato di potassio e gomma arabica; la novità stava nel fatto che essa capocchia, sfregata su una superficie ruvida, prendeva immediatamente fuoco, fuoco che però si propagava a tutto il bastoncino e alle dita che lo stringevano.

Nel 1833 in Austria venne aperta la prima “fabbrica di fiammiferi a sfregamento per fumatori”; questa fu anche la prima dimostrazione pratica dei danni da fumo, dato che i fiammiferi lì inventati avevano una capocchia talmente sensibile che s’incendiava spontaneamente anche solo sfregandosi con la fodera delle tasche delle giacche, creando così improvvisi falò umani.

Incredibile fu il numero di disastri causati da questi fiammiferi; case, teatri, alberghi e tribunali distrutti, foreste incenerite, carrozze in fiamme.
La stessa fabbrica, già sull’orlo del fallimento perché la manipolazione non protetta del velenosissimo fosforo bianco falcidiava gli operai con tremende malattie, un giorno s’incendiò ed esplose.

I temerari scienziati nordici però continuarono indefessi i loro studi, sino a quando, nel 1844, lo svedese Lundstrom impiantò una nuova fabbrica di “fiammiferi svedesi di sicurezza”, avendo scoperto finalmente che il fosforo rosso, al contrario del bianco, non era né velenoso né autocombustibile.

Bisognava solo trovare la materia giusta con cui miscelarlo in modo tale che si accendesse tramite sfregamento; fu prescelto il clorato di potassio, ottenendo in tal modo dei fiammiferi che, una volta sfregati, producevano regolarmente un’allegra deflagrazione che spargeva tutt’attorno frammenti di legno incandescente che accendevano non solo fornelli di pipa e sigari, ma anche capelli, pellicce, cappotti, tendaggi, tappeti e scrivanie.

Per interrompere le stragi, dovettero mettersi di mezzo i governi degli Stati Mondiali i quali, tramite accordi internazionali, vietarono per qualche anno la fabbricazione dei fiammiferi.

(©Ariel D. Bravy)

In seguito gli scienziati svedesi superstiti capirono finalmente il problema di fondo, e lo rimediarono con un geniale accorgimento.

Divisero il fiammifero in due parti, la capocchia – composta da clorato di potassio, solfuro di antimoniocolla arabica e varie sostanze sviluppanti ossigeno – e il fosforo, spalmato NON sul bacchetto di legno bensì solo sulla superficie ruvida di sfregamento.

In tal modo l’industria dei fiammiferi finalmente sicuri proliferò a dismisura dando luogo, soprattutto in America e in Svezia, a potentissimi trust come la “Kreuger e Toll” che nel secolo scorso fu il più colossale complesso finanziario e industriale del mondo.

Poi venne il signor Bic con gli accendini usa e getta, e tutto cambiò.

© Mitì Vigliero

Da una biglia nacque la biro

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Era l’estate del 1936 quando il trentasettenne pittore ungherese Ladislao Biro, osservando dei bambini giocare a biglie sulla spiaggia, vedendo le sferette di vetro lasciare tracce nitide e precise al loro passaggio sulla sabbia, fu colpito da una folgorazione: inventare una penna che sostituisse la stilografica.

Nel 1938 ottenne il brevetto della prima “biro”, detta anche penna a sfera.
Nel ’40 si recò in Francia alla ricerca di finanziatori, e dopo averli trovati lo stesso anno salpò per l’Argentina, allora terra piena di promesse; qui perfezionò la sua rivoluzionaria invenzione con l’aiuto del fratello Georg, chimico, che inventò un inchiostro pastoso e a veloce essiccamento a base d’olio; quindi iniziò a produrla in proprio.
Ma non intendendosi di amministrazione contabile, il risultato fu disastroso e la ditta fallì.

Deluso e arrabbiato, nel 1944 Ladislao vendette per una cifra irrisoria il brevetto ad uno dei suoi finanziatori francesi.

Col ricavato comprò una piccola fattoria, deciso stavolta a mettersi a fare l’allevatore; ma dato che non aveva la minima esperienza di bovini, l’impresa si rivelò nuovamente un fallimento.

Trascorse anni di piena miseria e oberato dai debiti; nel Sessanta, venne assunto con un piccolo incarico dalla Commissione Nazionale Argentina per l’Energia Atomica.

Morì in assoluta povertà a 86 anni, il 25 ottobre del 1985, a Buenos Ayres.

Le prime penne biro arrivarono in Italia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale; erano carissime, e soprattutto vennero immediatamente contestate dai maestri e professori della scuola i quali imponevano agli studenti l’uso del pennino e dell’inchiostro o della stilografica perché, e forse non avevano tutti i torti, dichiaravano che con quelli i ragazzi avrebbero avuto una migliore grafia.

Effettivamente io, senza essere affatto centenaria, ricordo bene che sino alle mie scuole elementari l’utilizzo delle biro era ferocemente proibito in classe.

Ma anche tutta la burocrazia italiana contestò le penne a sfera, dichiarandole strumento diabolico: sino al 1960 era assolutamente vietato usarle negli uffici pubblici e alle Poste , per compilare documenti e certificati di qualunque tipo o stendere scritti di esami statali.

Altre nemiche feroci della biro furono le banche: le ultime in assoluto a voler riconoscere gli assegni firmati con la penna a sfera.

E lo sapete chi fu il fortunato signore che acquistò il brevetto dell’infelice Biro?

Marcel Bich, un barone francese nato  a Torino in corso Re Umberto 60 e morto settantanovenne a Parigi il 30 maggio del 1994, passato alla storia come “il re dell’usa e getta” grazie a tre fantastici colpi di genio partoriti nel nome del “tutto si crea e tutto si distrugge”.

In primis l’acquisizione del brevetto della penna biro, che ben presto scoprì più atta ad esser fabbricata nei semplici tubetti di plastica trasparente e non nei costosi vetro, ceramica e lacca; poi i rasoi monouso e infine gli accendini senza ricarica.

Bich fu accusato perciò di essere uno dei fondatori del consumismo; può darsi, ma è indubbio che i suoi prodotti hanno facilitato un po’ la nostra vita e soprattutto reso estremamente felici i suoi undici figli, oggi plurimiliardari.

© Mitì Vigliero