E’ la passione dei turisti giapponesi e americani, che alla fine della visita spesso domandano estasiati: “Dove sono le altre 15?”, equivoco nato dalla balzana traduzione del suo nome in molte guide turistiche: “Sixteen Chapel”, la Cappella Sedicesima.
Non è grande, la Cappella Sistina; solo 36,50 metri per 13,40.
Ma è incredibilmente alta,: 20,73 metri, un palazzo di sette piani che trasuda arte perché su quei muri hanno lavorato il Perugino, Pinturicchio, Botticelli, Rosselli, Signorelli, il Ghirlandaio e soprattutto lui, Michelangelo Buonarroti.
Papa Giulio II, successo allo zio Sisto IV che volle la Cappella e le diede nome (Sistina-Sisto), non era soddisfatto dell’apparato decorativo già esistente; come scusa per fare nuovi lavori prese una grossa crepa che si era aperta nella volta, sino ad allora affrescata con un cielo stellato.
Il Bramante, bravo sì ma pure carognetta, con quella che il Vasari definisce una “trappola artistica“, gli suggerì di affidare la nuova decorazione al Buonarroti ben sapendo che questo, non essendosi mai cimentato con la tecnica dell’affresco , molto probabilmente avrebbe fatto una pessima figura e così il Papa avrebbe scelto l’amichetto del cuore di Bramante: Raffaello .
Così il Papa convocò Michelangelo, il quale immediatamente gli rispose, più o meno:
– “Ma va là! Sono uno scultore, mica un pittore: perché non lo chiedi a Raffaello?”
Che il Buonarroti non si giudicasse pittore era vero; inoltre aveva già sperimentato l’anno prima, iniziando a costruirne la tomba, le irritanti e continue interferenze del Pontefice e soprattutto il fatto che non lo avesse mai pagato, se non con un misero anticipo.
Ma il Giulio aveva, oltre un pessimo carattere, anche una buona capacità di persuasione (menava con lo scettro papale) e, alla fine, Michelangelo accettò.
Iniziò nel 1508, contestando da subito i suggerimenti del Papa; Giulio voleva ritratti gli Apostoli e Michelangelo invece dipinse la Genesi.
Giulio sbraitava perché voleva vedere il lavoro e Michelangelo rifiutava sbraitando più forte; una volta, per toglierselo dai piedi, finse addirittura di partire e si rinchiuse nella Cappella.
Giulio, approfittando della sua assenza si inerpicò sugli altissimi ponteggi; Michelangelo, come se ne accorse, gliene scagliò addosso dall’alto le assi.
Giulio non gli pagava il materiale (legni, pennelli, colori, solventi) però ordinava urlando: – ”Che la cappella si arricchisca di colori e d’oro, che l’è povera!”.
E Michelangelo, ringhiando perché doveva pagare anticipatamente lui l’oro zecchino e il lapislazzuli per l’azzurro, ribatteva gridando: – “In quel tempo gli uomini non portavano addosso oro e quegli che son dipinti non furon mai troppo ricchi, ma santi uomini, perché sprezaron le ricchezze!”.
Buonarroti rischiò la cecità (il colore gli colava negli occhi); dipingendo la volta col collo perennemente piegato all’indietro si deformò la cervicale: finì il lavoro nel 1512.
E trent’anni dopo, quando Paolo III lo incaricò di affrescare la parete d’altare, tornò; questa volta venne pagato col diritto a riscuotere le gabelle per i traghetti sul Po , 600 scudi d’oro l’anno, e tutto il materiale pittorico a carico del Papa. Anticipato.
Nel Giudizio Universale Michelangelo si tolse qualche “sassolino” immortalando chi lo criticava; Minosse, orecchie d’asino e un serpente che gli morde i genitali, è Biagio da Cesena, cerimoniere papale che, sprezzante, giudicò la Cappella Sistina -causa i nudi ritratti – “degna d’osteria”.
E s’autoritrasse nella pelle scuoiata viva retta in mano da un San Bartolomeo col volto di Pietro l’Aretino, il quale bollò pubblicamente l’opera come “volgare“.
Da che pulpito, eh?