Il Monsignore Tarantolato: “Se non balla, muore!”. Storia di un milanese che si convertì alla pizzica.


(Abbazia di San Vito, Polignano a mare)

 

Colonna sonora

 

Il Berni nel suo Orlando Innamorato (46°, str. 6,7) scrive:

Come in Puglia si fa contro al veleno
di quelle bestie che mordon coloro
che fanno poi pazzie da spiritati
e chiamansi in vulgar tarantolati;
e bisogna trovar un che, sonando
un pezzo, trovi un suon ch’al morso piaccia,
su quel ballando, e nel ballar sudando
colui da sé la fiera peste scaccia
”.

E’ antichissima credenza che l’unico modo di salvarsi dal morso della tarantola sia danzare in modo forsennato per espellere il veleno attraverso il sudore.

Eredità dei riti Dionisiaci, proprio per il suo sapore estremamente pagano la danza dei “pizzicati” venne a lungo avversata dalla Chiesa che ne aborriva il furore bacchico tacciandolo come diabolico e immorale “esorcismo fai da te”.

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Però ai pugliesi degli anatemi caleva poco; d’altronde il malefico ragno detto Lycosa Tarentula deriva il suo nome proprio da Taranto, ergo era sacro patrimonio e tradizione da rispettare: se ti morde una tarantola, devi ballare al suono di strumenti vari (tamburelli, chitarre, violini, flauti ecc).
Solo così ti salverai.

Ma, come narra il medico salentino Epifanio Ferdinando (1569-1638) nelle “Centum historiae seu observationes et casus medici” (1621), nel XV sec. vi fu un prelato che volle dimostrare una buona volta che eran tutte superstizioni e che era l’ora di farla finita con quel “selvatico malvezzo di Puglia”.

Il serissimo e severo Giovanni Battista Quinzanto – milanese di patria e vescovo di Polignano a Mare (BA) di professione – un bel giorno di luglio, di fronte a una folla di fedeli raccolta nell’abbazia di San Vito (protettore dei pizzicati), ordinò un canestro pieno di tarantole facendosele poi applicare dal barbiere – a mo’ di sanguisughe – su schiena, braccia e petto.

Gli astanti erano sconvolti, ma lui sorrideva “impavido come Daniele nella fossa”.

Dopo poco però apparvero sul suo corpo grandi chiazze rosse orlate di bruno e Monsignore, in preda a terribili bruciori, chiese d’esser portato a letto , invocando l’aiuto di un medico.

A nulla valsero “cerotti, decotti, balsami, tisane o alessifarmaci”: il dolore era atroce e “sopravvennero strozzamenti, deliqui, furori, e fece a brandelli le lenzuola”.

Tutti i presenti, sapendolo “tarantolare come il più semplice villanzone di Puglia a tutto scapito della sua ambrosiana austerità”, per tre giorni e tre notti rimasero preoccupatissimi nell’abbazia gridando a gran voce : “Se non balla, muore!”.

E infatti, all’alba del quarto giorno il vescovo, “motu proprio”, raccolte le poche forze, alzatosi dal letto in camicia e brache ordinò “Suonatemi!”, ovviamente nel senso non di “pestatemi come un tamburo” ma di “suonate per farmi ballare”.

pizzicataranta

Accorsero un chierico col piffero e un frate conventuale con la mandola; il vescovo “ritto come un pino” , appena sentì la musica iniziò a “prillare in punta e tacco, a spiccar salti come un giovane camoscio” sempre più veloce, sempre più piroettante scalmanato su e giù per la grande stanza  “sino a gocciolare com’uno uscito dal pelago alla riva, traendo sbuffi come un balenottero”.

Ma dopo la “scalmanata” immediatamente, con soddisfazione generale, guarì “e da quel giorno nefasto tenne in ben altro conto il selvatico malvezzo di Puglia”.

© Mitì Vigliero