24 Giugno: San Giovanni e i Genovesi

arca di san giovanni

Lasciarono la Lanterna nel luglio del 1097; alcuni mercanti e nobili genovesi avevano armato 10 galee dirette in Terrasanta per accompagnare “fortissimi guerrieri” a combattere contro i Turchi e, già che s’era lì, a tentare l’impresa d’espansione coloniale.

Un anno dopo tornarono a casa senza più guerrieri, ma con in tasca la donazione della città d‘Antiochia e, nella stiva, i resti mortali di San Giovanni Battista recuperati a Mira e deposti subito nella cattedrale di San Lorenzo.

Nel 1327 il cosiddetto Precursore fu eletto Patrono della città, e forse qualcosa di più, visto che i genovesi in lui ebbero sempre la fiducia che si può avere in un padre.

Lo invocarono ogni volta che un pericolo minacciava la Superba; invasioni, epidemie, incendi, ma soprattutto violente burrasche che minacciavano il porto: le sue ceneri ogni volta venivano portate sul luogo del periglio e la calma tornava.

Miracoli testimoniati negli annali dello Stella, del Bonfandio e nelle Cronache del 1406, 1414, 1613, 1640, tanto che proprio in quegli anni si prescrisse una solenne processione che ogni 24 giugno, giorno della nascita del Santo, ne scortasse la sacra Arca contenente le reliquie attraverso la città fino al porto.

San Giovanni fu prediletto dai genovesi anche come nome di battesimo; sino al 1950 fu proprio Giambattista il nome più diffuso, coi diminutivi di Gio Batta e Baciccia.

Ma piacque soprattutto perché caldo simbolo di luce; dall’Oriente quelle galee portarono non solo un emblema religioso, ma un culto antico, dal fascinoso sapor profano, fatto di fuochi e falò derivati dagli antichissimi fulgori che salutavano il solstizio d’estate.

E quei falò brillarono da subito sul greto del Bisagno, sulle spiagge, sulle fasce dell’entroterra, accesi da contadini e pescatori che s’illudevano così di cacciare spiriti maligni e  streghe che la notte tra il 23 e il 24 uscivano dai loro antri nascosti scatenandosi in sabba infernali.

I fuochi divennero poi mero motivo di festa e convivio; ovunque in città vi fosse un minimo spazio, piazza Sarzano, Santa Maria di Castello, Principe, San Teodoro, persino sui merli di Torre Embriaci e in tutte le alture alle spalle di Genova, s’innalzavano fiamme e si ballava attorno a loro la “moresca“.

Si cuocevano nelle braci le cipolle, quella notte terapeutiche per allontanar febbri e vermi; e migliaia di lumache, poste su grandi graticole con la bocca del guscio all’insù, coperta di olio, prezzemolo, sale ed aglio.

E dove non si potevano accendere falò, si appendevano lanternine di carta rossa, verde e gialla, con dentro lumini; e poi fuochi artificiali, mortaretti, girandole, razzetti: un tripudio di luci che illuminava la notte più magica dell’anno.

Quella in cui bisogna raccogliere le erbe per sfruttarne appieno le virtù salutari; immergersi nell’acqua, mare fiume lago che sia, rotolarsi su prati bagnati di rugiada per preservarsi dai reumatismi; esporre indumenti di lana e di seta all’aperto, affinché non vengano mai toccati dalle tarme ed infine scambiarsi promesse d’eterno amore saltando, in coppia, le braci rimaste nei falò.

© Mitì Vigliero