Nel nostro linguaggio quotidiano piantare in asso significa lasciare qualcuno da solo, solitamente in modo improvviso e inaspettato e possibilmente in mezzo a difficoltà o a situazioni sgradevoli.
Qualcuno dice che questo modo di dire derivi dal gioco dei dadi o delle carte: rimanerecon un asso, ossia con un solo punto.
Altri, assolutamente logici ma del tutto privi di romantica fantasia, lo fanno derivare da uno dei significati dell’aggettivo latino assus: “senza accompagnamento, solo”.
Altri ancora – e sono quelli che mi stanno più simpatici- affermano che potrebbe trattarsi della deformazione popolare detta dai colti paretimologia del nome Νάξος (Nasso), isola greca delle Cicladi nel mar Egeo, famosa per la conclusione della storia diTeseo e Arianna.
Infatti il mito racconta che fu proprio qui che l’eroe attico -per nulla grato del fatto che l’innamoratissima Arianna lo avesse aiutato col famoso filo a uscire dal labirinto del Minotauro- dopo averla (oh vigliacco) addormentata con una pozione, l’abbandonò da sola sull’isola.
In queste notti insonni causa caldo e stress, leggo e soprattutto rileggo libri divertenti e poco impegnativi.
Ora sul comodino ho Bacco, Tabacco e Venere. Usi, costumi, vita, tradizioni, scherzi e mattane della goliardia italiana (di Franco Cristofori, ed. SugarCo, 1976).
In omaggio a questi giorni di Olimpiadi londinesi, vi racconto in poche parole un episodio ambientato a Torino durante le Universiadi del 1970.
I numerosissimi Goliardi che avevano lavorato come buoi – e completamente a gratis – durante i preparativi della manifestazione sportiva, chiesero di avere almeno un riconoscimento sotto forma di tessere omaggio che permettessero loro di assistere a tutte le gare.
Ma l’ingrato Presidente della Fidal ne mise a disposizione solo 10, dicendo che di tessere omaggio ne erano state già distribuite sin troppe.
I Goliardi allora meditarono vendetta tremenda vendetta.
Poiché filavano in perfetto accordo con tutte le giovani e carine segretarie dell’Organizzazione, non faticarono a “trovare” 100 tessere di libero ingresso ovviamente vidimate, ma ancora da compilare con gli accrediti.
Riempirle con nomi e cognomi attendibili però sarebbe stato troppo serio e logico; e così vennero compilate in tal modo:
Alighieri Dante, Comitato Olimpionico. Incarico:Cronista. D’Arco Giovanna, Servizi Tecnici. Incarico:Riscaldamento. Monti Vincenzo, Comitato Olimpico. Incarico: Traduttore d.t.d.o. (dei traduttor d’Omero). Verdi Giuseppe, Servizi Tecnici. Incarico: Capobanda. Volta Alessandro, Servizi Tecnici. Incarico:Enel. Leopardi Giacomo, Servizio Stampa. Incarico: Corrispondente della “Voce Adriatica”. Marconi Guglielmo, Servizi Tecnici Sanità. Incarico: Radiologo. E così via.
Riuscirono tutti ad entrare, giusto in tempo per cantare l’inno ufficiale: Gaudeamus Igitur.
Il giorno dopo, sulle pagine sportive de La Stampa si poteva leggere:
“All’ingresso si sono presentati insieme Mao Tse Tung, redattore di “Pechino Sera”, e Richard Nixon, Ufficio Legale. Un usciere ha fatto storie perché “ufficio” era scritto con una sola effe; nel fattempo però entrava tranquillamente uno con un tesserino che recava la scritta Nembo Kid, Recordman.”
“Agosto moglie mia non ti conosco” è forse uno dei proverbi italiani più strani e buffi che esistano.
Deriva dall’antica credenza che per gli uomini fosse estremamente dannoso per la salute avere rapporti sessuali con temperature elevate.
Ma era cosa difficilina evitarli perché, come scriveva Esiodo, l’astro di Sirio proprio ad agostoaccentuava il languore passionale delle donne: per colpa della “Canicula” (altro nome di Sirio, stella più grande della costellazione del Cane Maggiore) in agosto “le donne son tutte calore e gli uomini tutti fiacchezza”.
Altra spiegazione indubbiamente più logica era quella che, rimanendo gravide in questo mese, le donne avrebbero partorito a maggio, mese inderogabilmente dedicato alla semina e ai lavori nei campi; faticose manovre nelle quali le “braccia” di tutti, anche quelle femminili, erano estremamente necessarie e una partoriente al nono mese o una novella puerpera non avrebbero di sicuro avuto la forza di svolgerli.
Nel corso dei secoli, e col variare delle abitudini e dei costumi, il proverbio ha preso un altro significato ancora; poiché le mogli andavano spesso in vacanza da sole coi figli, i mariti -rimasti da soli in città a lavorare- avevano più occasioni d’intrecciare extraconiugali avventure galanti.
Ma in nome della parità dei sessi la cosa era spesso ricambiata, visto che i treni carichi di mariti che arrivavano il venerdì sera dalle città nelle località delle Riviere dove le mogli erano in vacanza, dagli anni ‘20 sino ai ‘70 del secolo scorso venivano affettuosamente chiamati “i treni dei cornuti”.
Ma lo sapete perché si dice “Essere un cornuto” ?
Anche se a noi oggi può sembrare incredibile, nell’antichità le corna erano originariamente simbolo di forza, coraggio, ardore e virilità.
Per questo molte divinitàe molti personaggi potenti venivano rappresentati – in quadri, statue e affreschi –cornuti, ossia dotati di un bel paio di corna più o meno grandi sulla fronte.
Orazio e Tibullo cantarono le “corna d’oro” del dio Bacco, molti re di Macedonia, Siria e Tracia ornavano i loro diademi oppure, nel caso dei sovrani guerrieri Alessandro e Pirro, i loro elmi di corna.
E allora perché ad un tratto l’epiteto “cornuto” divenne un insulto?
Tutta colpa dell’imperatore bizantino Andronico I Comneno, nato nel 1120; un tipaccio violento, sanguinario, esperto in congiure e grande sciupafemmine.
I suoi lo detestavano, sia perché non faceva che tramare contro l’Impero di famiglia maneggiando con nemici storici quali Ucraini e Sultani di Damasco, sia perché riusciva a portarsi a letto ogni donna di parente altrui, cognata o cugina che fosse.
L’Imperatore Manuele, suo cugino, prima lo schiaffò in prigione per nove anni poi, per toglierselo dai piedi, lo esiliò nominandolo governatore della Cilicia.
Qui Andronico si annoiava a morte, così piantò moglie legittima e tre figli e andò ad Antiochia dove sedusse la principessa Filippa di Poitiers.
Ma si stancò presto della relazione; così la mollò, fece un salto a San Giovanni d’Acri, rapì la regina Teodora vedova di re Baldovino III e la portò prima a Damasco poi in Georgia sul Mar Nero e infine di nuovo a Costantinopoli dove, furbone, fece pace con Manuele, vecchio e malato.
Quando questo morì ottenne la tutela del figlio di lui, l’imperatore Alessio II; stette calmìno per due anni poi, con una solita congiura, lo strangolò, ne prese il posto e, già che c’era, cacciò via Teodora e i due figli avuti da lei, impalmando la giovanissima vedova di Alessio, Agnese di Francia.
E ora arriviamo finalmente alle corna.
Una volta preso il potere, dal 1183 al 1185 Andronico Comneno si abbandonò a una serie interminabile di nefandezze.
Mentre blandiva il popolo con trovate demagogiche e populiste, si accaniva sui nobili di Costantinopoli e città vicine, soprattutto su quelli che lo avevano sempre avversato.
Li faceva arrestare per un motivo qualsiasi, rapiva le loro mogli tenendosele come concubine e sollazzandosi con esse sino a quando gli andava; poi, come sommo scherno, faceva appendere sulle facciate dei palazzi dei poveretti delle simboliche e beffarde teste di cervi e altri animali naturalmente cornuti da lui abbattuti a caccia.
Fu allora, e precisamente nel 1185, che nacque in Grecia il modo di dire “cherata poiein”, mettere le corna, per indicare il pubblico ”infortunio” coniugale subìto dai mariti sudditi di Andronico.
Il 24 agosto di quell’anno i soldati dell’esercito siciliano di re Guglielmo II il Normanno conquistarono Salonicco, e rimasero stupitissimi nel vedere decine e decine di palazzi decoraticon teschi di animali muniti di corna; quando ne conobbero il motivo, fecero conoscere l’epiteto “cornuto” anche in Sicilia , da dove si diffuse in tutta Italia prima e in tutta Europa poi.
E che fine fece Andronico Comneno il Cornificatore?
Quando l’11 settembre giunse a Costantinopoli la notizia della caduta di Salonicco, il popolo – cornuti in testa – si ribellò; l’Imperatore venne catturato, mostruosamente seviziato e – proprio come uno dei suoi macabri trofei – appeso per un piede alla facciata del suo Palazzo.
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