Spigolature da Libri Introvabili: l’Autobiografia di Totò

Una lacrima è solo l’altra faccia del sorriso

Quando uno pensa ad attori comici italiani, è quasi automatico che fra i primi nomi gli venga in mente quello di Totò che, dal 1916 al 1967, ha fatto ridere intere generazioni.
E quando uno cerca di immaginare il carattere di un comico come Antonio de Curtis in arte Totò, è facile che quasi immediatamente pensi ad aggettivi quali socievole, amicone, ridanciano, allegro, pazzerellone, ottimista, scherzoso e così via.

E invece no.

Come quasi tutti i grandi comici e i grandi umoristi, nella vita “reale” era una persona tendente alla riflessione, alla solitudine, a una perenne sottile malinconia.
Ed era proprio grazie a questa che, diceva, riusciva a regalare sorrisi agli altri.

Nel romanzo autobiografico Siamo uomini o caporali?” del 1953 (ripubblicato poi nel 1996), ad un certo punto Totò parla del piangere: e si chiede perché la maggior parte degli uomini si vergogni del pianto, quasi fosse una debolezza incompatibile con la virilità.
Lui, al contrario, sperava di non perdere mai la capacità di farlo, affermando che:
Chi nun sape chiagne, nun sape manco ridere. Nun vale niente. ‘E lacreme so’ na cosa bellissima,’na pioggia ‘e dolcezza. ‘O core che nun le conosce, è arido cumm’ ‘a ‘ nu deserto”.

In poche parole, chi non sa piangere, non sa ridere né tantomeno far ridere; il pianto stimola la sensibilità, affina la comprensione verso gli altri, ne coglie le sfumature nascoste: chi nella vita non si lascia mai “andare” alle lacrime diventa davvero arido come un deserto.
Perché si può piangere di dolore, ma anche di felicità e di commozione: se riusciamo a farlo con spontaneità, vuol dire che riusciremo sempre a capire meglio gli stati d’animo altrui e poterli forse aiutare perché, come dice Totò:
Una lacrima è solo l’altra faccia del sorriso”.

E proprio sulla base di questa convinzione è fondata quella che potremmo definire la filosofia di Totò di cui Siamo uomini o caporali? è una piccola miniera: riporto qui, pescandoli fra le sue storie, alcune sue riflessioni sempre in bilico fra la malinconia e il sorriso

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 – Molte persone mature darebbero tutto quello che hanno per avere nuovamente vent’anni. Io invece spenderei ogni mio avere pur di tornare bambino. Al massimo, vorrei avere sette anni.

– Bisogna prendere a modello certi comportamenti animali. Per esempio, a volte, le bestie di fronte ad un avversario particolarmente crudele, fuggono e si rintanano; non per viltà, ma per rispetto verso se stesse e verso la vita. Quante volte noi uomini faremmo meglio a rintanarci piuttosto che misurarci con squallidi nemici!

– Sono abituato all’ingratitudine e l’accetto con divertimento. Una volta, con l’intervento del mio avvocato, feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato, raccontò, per curare sua figlia ammalata. Mi riuscì simpatico e rimasi della stessa opinione quando, appena uscito di prigione, rubò la borsa all’avvocato.

– Avevo un amico che faceva il giornalista, un amico vero: era poverissimo,  come lo fui io per molto tempo. Mi chiese in prestito la macchina da scrivere ed io, per trarlo d’impaccio, gliene regalai una nuova. Lui mi ringraziò con calore per poi correre a casa e inaugurare il mio dono scrivendo un articolo contro di me. Il peggiore che mi sia mai stato dedicato come attore. Non ci piansi perché, se avesse scritto un panegirico, avrebbe mancato di dignità. E infatti il giorno seguente andammo a mangiare come niente fosse.

– Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l’unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.

– A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l’Altezza imperiale (suo padre era un nobile decaduto, ndr) non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, mentre con Totò ci mangio dall’età di vent’anni. Mi spiego?

– Non capisco come fa certa gente a passare la notte nei night club, in mezzo ad un chiasso infernale. Quando, raramente, sono entrato in uno di quei locali mi è venuto quasi da piangere. Tutti fingevano di essere allegri, agitandosi sulla pista da ballo, ma in realtà erano pieni di guai che  radiografavo col pensiero. L’industriale era afflitto dalle cambiali andate in protesto, la bella donna dal timore d’invecchiare, la ragazze dalle pene d’amore, l’impiegato dalle ambizioni frustrate. Al più fortunato facevano male i piedi.

– Io non sono un artista, ma solo un venditore di chiacchiere. Un falegname vale più di me perché almeno fabbrica un armadio, una sedia che rimangono. Noi attori, al massimo, quando ci va bene duriamo una generazione. Lo scritto rimane, un quadro rimane, anche un lavandino rimane. Ma le chiacchiere degli attori passano.

– La marionetta non è un personaggio allegro. Quando si accascia perché le hanno allentato i fili, è infelice come un uomo a cui abbiano spezzato il cuore.

– Spesso mi sono sentito dire che dovrei fare l’attore drammatico, ma io non sono d’accordo. Rappresento la vita, che è un misto di comicità e tragedia, e quindi non capisco perché dovrei convertirmi da un genere all’altro. La vita non si sceglie: si accetta.

© Mitì Vigliero