Perché si Dice: Andare in Malora – Andare a Ramengo

Andare in malora (o alla malora) è un antichissimo modo di dire che deriva dal latino “mala hora”, ossia “ora cattiva”: in senso lato, “momento brutto, funesto”.

Anticamente si credeva che le “male ore” fossero quelle comprese tra le 2 e le 4 del mattino, nel cuore della notte, quando le tenebre mettevano più paura e angoscia risvegliando incubiansie.

Ore nelle quali le statistiche mediche di allora denunciavano il maggior numero di decessi fra vecchi e malati.

In seguito è diventato quasi un luogo “fisico-geografico” dove si vasi manda (Ma va’ in malora!).

Altro modo di dire simile, indicante in generale una fine catastrofica e infelice, è andare o mandare a Ramengo.

E qui le versioni dell’origine sono due.


(Aramengo)

La prima si riferisce ad Aramengo, un paese (tra il resto bellissimo) in provincia di Asti.

Sino al XVII sec. era sede di Tribunale, e pare ospitasse un carcere duro dove venivano rinchiusi i delinquenti più pericolosi, solitamente in attesa di condanna a morte.

Quindi finire ad Aramengo come imputati e prigionieri significava finire decisamente male.

(foto©Lace1952)

La seconda versione invece fa derivare la parola ramengo da ramingo, che discende a sua volta dal provenzale ramenc (ramo), termine indicante pure gli uccellini che abbandonato il nido, ma non sapendo ancora volare, zompettano incessantemente di ramo in ramo.

Col tempo il termine ramingo si estese ad indicare anche chi avendo perso tutto (per fallimento, esilio ecc) era costretto a vagabondare senza meta e senza soldi per le strade del mondo.

Insomma, scegliete voi la versione che vi piace di più, e se conoscete modi di dire simili segnalatemeli, che li aggiungo qui! ;-)

©Mitì Vigliero


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Perché si Dice: Pietra dello Scandalo

ringadora modena

I milanesi, per definire un’impresa economica finita male, dicono “finì cont el cü per tèrra”; i piemontesi restà a cul biòt” (nudo) e i genovesi dâ du cù in ta ciappa” (pietra).

In realtà questi modi di dire sono diffusi in tutta Italia, perché derivanti dalla stessa legge.

All’epoca di Cicerone infatti , i debitori insolventi e i commercianti falliti subivano come pena una spietata pubblica “esecuzione” che, se non toglieva loro fisicamente la vita, annientava ogni dignità personale tramite “morte civile”.

Venivano condotti nel Campidoglio e, esposti al pubblico ludibrio denudati dalla cintola in giù, obbligati alla “bonorum cessio culo nudo super lapidem”, ossia a cedere i loro beni (ai banditori d’asta) stando seduti a chiappe nude su una pietra.

Le “pietre dello scandalo” , dette anche “dell’infamia” o “dei fallimenti” erano sparse per tutto lo Stivale, non solo nelle grandi città, e alcune sono tutt’ora visibili.

Ad esempio a San Donato Valdicomino (Frosinone) esiste la cinquecentesca Pietra di San Bernardino (promotore dei Monti di Pietà), dove il debitore stava ininterrottamente seduto a natiche nude per un periodo di tempo proporzionato all’entità del suo debito.

A Rimini sotto il portico del Palazzo dell’Arengo, fra i banchi di banchieri e notai e dove pubblicamente veniva amministrata la giustizia, vi era un pietrone (lapis magnum) dove il condannato doveva battere tre volte e con violenza il sedere nudo gridando ogni volta come un mantra “Cedo bona!” (cedo i miei beni).

Ad Asti la pietra della vergogna si trova ora appesa in verticale nell’atrio del Palazzo Comunale; ma un tempo era nel centro della piazza principale, sede dei mercati.

A Genova si trovava nei pressi del Mercato del pesce e palazzo San Giorgio; a Bergamo era un sedile attaccato ad una delle due colonne che si trovavano in Piazza Vecchia; a Milano si trovava in Piazza Mercanti, ed era un blocco di granito nero.

La pena a Firenze aveva un nome preciso, “l’Acculata”, e si svolgeva nella Loggia del Porcellino nel Mercato Nuovo; la pietra era quel cerchio di 6 spicchi di marmo tutt’ora visibile e che rappresenta in dimensione reale la ruota del Carroccio, simbolo della legalità.

Qui il Magistrato del Bargello, scegliendo le ore in cui il mercato era strapieno, scandiva a voce alta il nome del condannato e il motivo della pena; al tapino poi venivano calate le braghe, era afferrato per braccia e gambe, fatto oscillare sulla folla “ostentando pubenda” e infine, fra i frizzi e lazzi della folla, lasciato caderepercutiendo lapidem culo nudo”.

Infine a Modena erano cattivissimi; usavano la pietra “ringadora”, quel gigantesco blocco di marmo rosso veronese che ora è posto all’angolo del Palazzo Comunale in piazza Grande.

Un’ordinanza dello Statuto Cittadino del 1420 prescriveva che il colpevole dovesse essere lì condotto per 3 consecutivi sabati (giorno di mercato), fare 3 volte il giro della piazza preceduto da trombettieri che attirassero l’attenzione e a ogni giro fosse spinto a ”dare a culo nudo su la petra rengadora la quale sia ben unta da trementina”, per farlo bruciare non solo di vergogna.

© Mitì Vigliero