Siete In Vacanza In Giro Per L’Italia? Potreste Andare A Caccia di Tesori Nascosti

© di Mitì Vigliero

O voi Vacanzieri sparsi per le varie regioni dello Stivale: sapete che pare che l’Italia pulluli di tesori nascosti?

In Piemonte, ad esempio, e precisamente a Belveglio (Asti), sotto il castello Belvedere che anticamente aveva l’allegro nome di Malamorte, esiste un dedalo di gallerie, anfratti, grotte dove si cela un ricchissimo tesoro composto da monete e gemme preziose.

Nelle  vicinanze di Villar Perosa invece c’è il “Roccio d’la Fantina”, un masso su cui qualcuno ha tracciato con la calce dei misteriosi segni, quasi una mappa: dicono che chi riuscirà a decifrarli troverà tutti i tesori nascosti nella vallata.

Per scoprire quelli anfrattati nei territori marchigiani bisogna munirsi di una “palla simpatica”, una sfera di legno alla quale è legata, con un rametto di faggio, una calamita; ad ogni modo molti oggetti preziosi sembra siano sepolti sotto le rovine del castello posto sul Colle di Santa Colomba vicino a Pergola, mentre nelle viscere del monte San Cristoforo è nascosto un telaio tutto d’oro.

Nella lombarda Trezzo sull’Adda, sotto i ruderi del castello, dicono che vi siano ancora pezzi dimenticati del tesoro del Barbarossa, arraffato dai milanesi dell’epoca.

Altre ricchezze stanno nei fondi dei castelli di Urgnano e di Pandino;  visto che l’unione fa la forza molti anni fa, a Treviglio, un gruppo di speranzosi amici  fondò l’”Associazione Anonima Tesori” con tanto di sedi (via Adua 1 e via Terraccio 1), regolamento e carta intestata: purtroppo il sodalizio si sciolse dopo varie infruttuose esplorazioni dei succitati sotterranei.

Gaeta, vicino al promontorio detto La Nave, c’è un buco nella roccia chiamato Pozzo del Diavolo dal quale esce uno stranissimo rumore prodotto dalle onde che si rifrangono sul fondo: dicono che lì si trovino anfore zeppe di preziosi d’altissimo valore.

Cosenza, nel fiume Busento, insieme a Re Alarico sono sepolte le sue ricchezze e a Longobuco, poco dopo il ponte sul Trionfo, ci si imbatte in una grossa roccia chiamata “la Gnazzita”; basta sollevarla per trovare sotto di essa una chioccia d’oro attorniata da tanti pulcini d’oro anch’essi.

Per la cronaca, la chioccia d’oro coi pulcini o le uova era una tipica opera d’arte d’epoca etrusca prima, bizantina poi: una specie di divinità casalinga che simboleggiava la famiglia e la relativa protezione matriarcale.
Quasi tutte le dame nobili ne avevano una, più o meno grande a seconda della ricchezza familiare; e di tesori leggendari che citano chiocce d’oro ce ne sono molti sparsi in tutta Italia. Basta cercarli.

(Chioccia di Teodolinda Museo di Monza)

Ma proseguiamo. E’ interessante sapere che nel 492 d.C. gli abitanti di Aquileia, assediati dalle truppe di Attila, decisero di abbandonare la città; ma prima scavarono un profondo pozzo, vi nascosero tutte le loro ricchezze e lo riempirono di terra.

Però nessuno fu poi in grado di ritrovarlo e, sino ai primi del 1900, nei contratti di vendita dei terreni vi era inclusa una clausola tramite la quale il venditore si riservava, in caso fosse stato localizzato, l’esclusiva proprietà del pozzo e del suo contenuto: ma  ancora oggi è sempre lì, che aspetta paziente di essere scoperto.

Secondo la tradizione più o meno popolare anche le innumerevoli scorribande saracene in Italia furono causa, oltre che di lutto e distruzione, di smarrimenti di centinaia di preziosissimi tesori nascosti sia dalle popolazioni in fugasia dagli stessi pirati che, nei momenti di difficoltà, preferivano anfrattare il bottino per poi tornarselo a riprendere in altri momenti.

Ad esempio nel lembo di terra bagnata dal Farfarus ovidiano, dominata dagli Orsini e da Narni e sede dell’antichissima abbazia di Farfa, un gruppo di monaci benedettini in fuga durante l’assedio dei saraceni, nascose il tesoro dell’abbazia (pietre preziose, pissidi, calici ecc) presso un piccolo colle della Sabina.

Quale colle di preciso però non si sa.

Per lo stesso motivo in Val d’Aosta, fra le rovine del castello di Graines, dall’XI sec. raccontano che dorma in attesa d’essere scoperto l’immenso tesoro nascosto dai monaci di San Maurizio d’Agauno, l’attuale Saint-Mauricevicino a Martigny, nel Vallese elvetico; così come si dice che i ruderi antichi dell’abbazia Santa Maria dell’Alberese nella Maremma grossetana, custodiscano sacre ricchezze benedettine.

E se nel piemontese Ottiglio Monferrato, nella valle di Guaraldi in località Prera, c’è la Grotta dei Saraceni, ove i predoni nascondevano il razziato – e leggenda vuole che vi sia stato trovato un loculo pieno monete d’oro, inLiguria per secoli si è cercato il tesoro del pirata Dragut.

Dicono che l’avesse nascosto nel 1557 nella Cala dell’Oro, meravigliosa insenatura  posta fra Punta Chiappa e Camogli; secondo altri invece si trova a Paraggi, in una caverna nascosta sotto Villa Bonomi Bolchini.

Ad Arenzano nel 1560, gli abitanti vedendo i pirati all’orizzonte, decisero di calare in fondo a un pozzo tutte le loro ricchezze; poi lo coprirono di terra.

Tornata la calma dopo giorni, corsero a recuperare i preziosi; ma l’avevano nascosto così bene quel pozzo, che non riuscirono mai più a trovarlo, e anche lì sino alla fine del 1800 nei contratti di vendita terreni c’era la clausola che al venditore sarebbe andato il contenuto del pozzo in caso di ritrovamento.

Una cosa simile accadde lo stesso anno ad Oleastra (oggi Volastra), sopra Manarola.

Gli abitanti avevano da tempo preparato un nascondiglio sulle fasce dietro al paese; una grande profonda buca divisa in scomparti, dove ciascuno poneva i suoi preziosi in caso di attacco.
Quell’anno vi avevano seppellito anche le 3 nuove campane in bronzo della chiesa.

Ma accadde che i saraceni quella volta li aggredirono in modo più violento del solito, uccidendone buona parte, catturando l’altra come schiava e rendendo Oleastra un paese fantasma.

Passarono gli anni, pian piano il posto si ripopolò, ma i nuovi abitanti non sapevano nulla del tesoro nascosto.

Un giorno arrivò un vecchio svanito e malconcio; disse di essere l’unico sopravvissuto alla prigionia saracena e raccontò della buca, degli ori, delle campane.
Però non ricordava affatto il luogo esatto del tesoro, e dopo poco morì.

Per anni si scavò dappertutto, inutilmente.

Dicono che, nelle notti di temporale, si sentano suonare le campane sottoterra: ma nessuno, di quei rintocchi, è ancora mai riuscito a capire la direzione.

© Mitì Vigliero

Non morimmo, ma fummo

Le lapidi di Aquileia

Visitando uno qualunque dei tanti cimiteri monumentali italiani, si leggono spesso antiche iscrizioni lapidarie assai reboanti; non v’è uomo che non sia stato in vita “ottimo, onesto, integerrimo”, né donna che non abbia mostrato “pudore, serietà, dedizione”.

Ma quasi mai quelle lapidi, a meno che non appartengano a musicisti, scrittori, eroi e personaggi illustri in genere, indicano ai posteri il ruolo che il defunto ebbe nella società.

Non leggiamo mai, che so, “Sempronio Bianchi – postino” o “Tizia Rossi – cuoca”; di loro sappiamo solo che furono padri, madri, figli amorevolissimi, possiamo vederne i volti in foto sbiadite, ammirare magari le statue che ne decorano le tombe: angeli, figure velate, piangenti.

Invece vi fu un tempo in cui le lapidi sepolcrali mostravano il defunto ancora nel pieno delle sue forze, raffigurato in vitale attività, qualunque essa fosse: e le iscrizioni raccontavano con fierezza i mestieri svolti, anche i più umili. 

In epoca romana era del tutto diversa la concezione del ciclo vitale; per noi la tomba annuncia la fine, la cancellazione di tutto ciò che abbiamo fatto o vissuto.

Per i Romani era invece una testimonianza continuativa: gli scritti sulle loro lapidi non annunciano mai la morte di qualcuno, ma dicono solo che visse tot anni e che fu qualcosa, illustre medico o semplice vasaio non importa.

Per rendersene conto basta recarsi al Museo Archeologico di Aquileia; lì la “lanifica Trosia Hilara”, tessitrice e cucitrice di lane, a distanza di secoli dice ancora che era una “circulatrix”, lavoratrice che si recava a domicilio.

Lucio Canzio Acuto invece, affinché non vi fossero dubbi sul suo mestiere di bottaio, fece incidere sul suo monumento – oltre gli strumenti da lavoro quali ascia, falcetto, raspa, roncola, tutti posti attorno alla cornice della lapide – proprio nel centro una bella botte panciuta.

Nonostante la sua giovanissima età, 17 anni, Caio Cornelio Successo di mestieri ne ebbe due: sull’ara funebre è ritratto da un lato in divisa da soldato, dall’altro nell’atto di sventrare un maiale, fiero di  essere un norcino.

Macellaio fu invece Lucio Sestilio Crescente; sul suo cippo volle tutti i suoi arnesi: il gancio uncinato per appendere la carne, il “marrancio” per tagliarla in quarti, il coltello per cavarne fette.

Vi è poi un Timoniere, serio, severo, solenne nell’asciuttezza tipica dell’uomo di mare; indossa la toga e mostra, scolpiti sul listello della stele, i suoi strumenti: l’ancora e il timone.

In un frammento di sarcofago un Banchiere è eternamente affacendato a contare i suoi “nummi”, le monete, che conservava al sicuro in una robusta cassaforte dai piedi rialzati e imbragata con lamine di ferro come quella sulla quale posa la mano il Cassiere che la costruì, e che volle essere immortalato per sempre insieme ad essa.

E infine la stele di Bassilla, “mima” (danzatrice) morta in Aquileia durante uno spettacolo.

E’ ritratta pettinata “ad elmo”, secondo la moda del III secolo; i suoi colleghi dettarono una lunga iscrizione in metrica greca che si conclude con la quieta esortazione: “Fatti animo, Bassilla: nessuno è immortale“. 

©Mitì Vigliero