Storia dell’Uovo di Pasqua

di Mitì Vigliero

L’uovo, dalla forma priva di spigoli e quindi senza principio né fine, è sempre stato considerato simbolo dell’origine della vita.

Gli Egizi in primavera sotterravano uova di struzzo lungo le sponde del Nilo convinti che ciò avrebbe reso la terra più fertile visto che, grazie alla sabbia calda come un’ incubatrice, spesso le uova si schiudevano generando struzzini.

Anche i Romani, sempre in primavera, festeggiavano Cerere, dea della fecondità della terra, offrendole uova come doni propiziatori del ciclo delle rinascite.

Proprio come simbolo di rinascita (e quindi di resurrezione) l’uovo divenne uno degli emblemi del Cristianesimo sin dai primordi: nelle catacombe sono state trovate uova di alabastro, augurale simbolo di nuova vita in auge tutt’ora come articolo regalo.

L’uso di scambiarsi uova in dono nel periodo pasquale risale invece al Medioevo; durante le severissime imposizioni di digiuno della Quaresima, era proibito mangiarne.

Quindi le uova sfornate dalle galline in quelle 6 settimane dovevano per forza essere smaltite rapidamente; perciò venivano benedette in chiesa durante la messa della domenica di Pasqua e poi donate, rassodate, ad amici e parenti come augurio di fecondità in ogni campo.

Nel XIII sec. in Francia e in Italia, studenti e soci delle Corporazioni prima della Messa si recavano in cortei preceduti da musici banditori  a bussare alle porte delle case questuando uova: alcune famiglie nobili, per distinguersi, iniziarono a tingerle di rosso o verde, lanciando l’idea dell’uovo-regalo decorato.

Luigi XIV faceva dipingere con belle miniature le uova da donare ai cortigiani da illustri pittori (ad esempio Watteau).

Ma poiché le uova vere andavano presto a male e non potevano essere conservate, subentrò l’uso di fabbricarne in materiali non deperibili.

Francesco I ne ricevette in dono uno in legno su cui era scolpita l’ascesa al Golgota; il Delfino di Francia un altro in smalto bianco su cui era riportato un testo del Vangelo, con un carillon all’interno.

Ma le uova più preziose in assoluto furono quelle dei Romanov, forgiate – su incarico dello zar Alessandro III- dall’orafo francese Peter Carl Fabergé, il quale dal 1885 al 1917 ne inventò più di 57 tipi , tutti in oro e gemme, che andavano a ogni Pasqua a ciascuno dei membri della regal famiglia e ciascuno conteneva una sorpresa diversa: orologi, giocattolini, modellini di navi, animaletti ecc.

Invece le uova di Pasqua in cioccolato risalgono all’inizio del XIX secolo; le cronache da Guinnes riportano che il più grosso fu preparato nel 1897 da un confettiere londinese in occasione di un matrimonio di un rampollo di casa Stuart celebrato in quel periodo: alto 9 metri, largo 18, conteneva centinaia di bomboniere da distribuire agli invitati.

Infine, sempre a proposito di uova di Pasqua curiose, nel 1869 il presidente degli Stati Uniti Grant ricevette in regalo dal chimico J.W. Hyatt un uovo apparentemente molto semplice, ma in realtà preziosissimo: era fatto di celluloide, materiale appena inventato da Hyatt.

© Mitì Vigliero

Una Storia Bionda

 tante-birre

Traducendo i caratteri cuneiformi di alcune tavolette trovate nella zona calda e umida compresa tra il Tigri e l’Eufrate, si è scoperto che ad inventare la birra furono, quattromila anni prima della nascita di Cristo, i Sumeri.
Si erano accorti che il pane d’orzo, andando regolarmente a male a causa del clima, fermentava trasudando uno strano liquido dorato.

Uomini assetati per natura, lo assaggiarono e lo battezzarono “sikaru”, pane liquido.

Dopo averla modificata in vari modi, creandola chiara e scura, profumata alla cannella o “nature”, la birra divenne per loro così importante che aveva addirittura una sua dea protettrice: Nin-Kasi-Bi. 
I medici la prescrivevano come ricostituente, le spose la portavano in dote, lo Stato la usava come benefit variabile a seconda delle gerarchie sociali: due litri al dì agli operai, tre ai funzionari di stato, cinque ai sacerdoti.

Gli Assiro-Babilonesi la chiamarono “se-bar-bi-sag”, cioè “la bevanda che fa vedere chiaro”; le loro donne, forse perché gli uomini dopo qualche bicchiere di birra diventavano improvvisamente romantici e galanti, erano convinte che favorisse la bellezza: per questo la regina Semiramide passava ore e ore immersa dentro una vasca colma di birra.

La moda di usarla come cosmetico però ebbe anche effetti nefasti sul sesso femminile; Nabucodonosor, per sbarazzarsi di amanti rompiscatole, aveva trovato il modo di farle fuori prima coprendole di pesantissime catene d’oro e bracciali mastodontici, invitandole poi a tuffarsi in piscine di birra dove le poverette annegavano felici di tanta amorosa attenzione alla loro beltà.

Sempre gli Assiri divennero grandi produttori di birra, tanto che ne inventarono ben venti qualità: otto d’orzo (“sikaru”), otto di spelta (“kurunnu”) e quattro miste. 

Il loro monopolio però fu ben presto sostituito da quello degli Egizi; loro la birra la chiamavano “zithum” se semplice, “dizithum” se doppia”, “carmi” se dolce, “korma” se allo zenzero e “cevrin” se chiara.

Era il primo bagnetto dei neonati; bevuta a grandi dosi curava i morsi degli scorpioni; veniva usata tra i balsami delle imbalsamazioni e infine come antidepressivo consolatorio dei parenti dei defunti durante le veglie funebri.

Cleopatra la usò per sedurre il bell’Antonio, e alla fine morì tenendo l’aspide in una mano e una coppa di birra nell’altra, forse per darsi coraggio.

I Greci invece non furono mai entusiasti della bevanda, preferendole il vino.
Eschilo, nelle “Supplici”, scriveva: “La Grecia è terra di uomini veri, non di gente che beve orzo”.

Anche i Romani prediligevano il vino, ma non disdegnavano la birra (che chiamavano “cervisia”).
Pur considerandola bevanda da barbari villanzoni e cosa umile e di poco valore (“farci la birra” è infatti un modo di dire prettamente romano), Augusto le dava il merito di averlo guarito dal mal di fegato (!) e Agricola, tornato dalla Britannia, decise di sfruttare la pensione aprendo una pubblica birreria.

Nel Medioevo la birra trionfò ovunque, riuscendo a sfuggire persino alle ferree leggi dietetiche del Corano perché considerata antidoto di morbi quali il vaiolo; in Europa furoreggiavano birre franche, venete, inglesi, cecoslovacche, e i più grandi fabbricanti di birra furono i monaci, come il patrono dei birrai, Sant’Arnoldo.

I tedeschi la migliorarono assai introducendo malto e luppolo; Martin Lutero la adorava, tanto che nelle sue riforme non la volle mai abolire né condannare.
E infine furono proprio gli emigranti tedeschi a farla conoscere negli Stati Uniti, dove gli americani ne crearono una tutta loro, quella dry, secca e aromatica.

©Mitì Vigliero

Storia dell’Uovo di Pasqua

faberge-1.jpg

L’uovo, dalla forma priva di spigoli e quindi senza principio né fine, è sempre stato considerato simbolo dell’origine della vita.

Gli Egizi sotterravano uova di struzzo lungo le sponde del Nilo convinti che ciò avrebbe reso la terra più fertile visto che, grazie alla sabbia calda come un’ incubatrice, spesso le uova si schiudevano generando struzzini.

Anche i Romani, in primavera, festeggiavano Cerere, dea della fecondità della terra, offrendole uova come doni propiziatori del ciclo delle rinascite.

Proprio come simbolo di rinascita (e quindi di resurrezione) l’uovo divenne uno degli emblemi del Cristianesimo sin dai primordi: nelle catacombe sono state trovate uova di alabastro, augurale simbolo di nuova vita in auge tutt’ora come articolo regalo.

L’uso di scambiarsi uova in dono nel periodo pasquale risale invece al Medioevo; durante le severissime imposizioni di digiuno della Quaresima, era proibito mangiarne.

Quindi le uova sfornate dalle galline in quelle 6 settimane dovevano per forza essere smaltite rapidamente; perciò venivano benedette in chiesa durante la messa della domenica di Pasqua e poi donate, rassodate, ad amici e parenti come augurio di fecondità in ogni campo.

Nel XIII sec. in Francia e in Italia, studenti e soci delle Corporazioni prima della Messa si recavano in cortei preceduti da musici banditori  a bussare alle porte delle case questuando uova: alcune famiglie nobili, per distinguersi, iniziarono a tingerle di rosso o verde, lanciando l’idea dell’uovo-regalo decorato.

Luigi XIV faceva dipingere con belle miniature le uova da donare ai cortigiani da illustri pittori (ad esempio Watteau).

Ma poiché le uova vere andavano presto a male, subentrò l’uso di fabbricarne in materiali non deperibili.

Francesco I ne ricevette in dono uno in legno su cui era scolpita l’ascesa al Golgota; il Delfino di Francia un altro in smalto bianco su cui era riportato un testo del Vangelo, con un carillon all’interno.

Ma le uova più preziose in assoluto furono quelle dei Romanov, forgiate – su incarico dello zar Alessandro III- dall’orafo francese Peter Carl Fabergé, il quale dal 1885 al 1917 ne inventò più di 57 tipi , tutti in oro e gemme, che andavano a ogni Pasqua a ciascuno   dei membri della regal famiglia, e ciascuno conteneva una sorpresa diversa: orologi, giocattolini, modellini di navi, animaletti ecc.

 

 

faberge-2.giffaberge-5.jpg

 

Invece le uova di Pasqua in cioccolato risalgono all’inizio del XIX secolo; le cronache da Guinnes riportano che il più grosso fu preparato nel 1897 da un confettiere londinese in occasione di un matrimonio di un rampollo di casa Stuart celebrato in quel periodo: alto 9 metri, largo 18, conteneva centinaia di bomboniere da distribuire agli invitati.

Infine, sempre a proposito di uova di Pasqua curiose, nel 1869 il presidente degli Stati Uniti Grant ricevette in regalo dal chimico J.W. Hyatt un uovo apparentemente molto semplice, ma in realtà preziosissimo: era fatto in celluloide, materiale appena inventato da Hyatt.

© Mitì Vigliero

Corollario