Di quei ricordi è cambiato nulla tranne l’ultimo che varia le ultime quattro righe: “E quasi tutti quei nostri Grandi ora sono lì; l’ultimo, il Generale jr, è ancora nella Casa da dove uscivamo con Nonno all’inizio di questa storia.”
Oggi anche lui dorme insieme a Nonno e Nonna e Mamma, circondato da campi di mais.
Ringrazio commossa tutti voi che mi siete stati tanto vicini con parole, messaggi, abbracci virtuali o dati di persona.
Ci manco da una vita, ci torno poco un po’ perché il lavoro e la vita mi dirigono verso altri lidi e un po’ perché mi prende un groppo di malinconia a pensare che molte delle cose, case, negozi, scuole, persone che formavano il mio mondo, non ci sono più.
E così ogni tanto, come Brigadoon, dalla nebbia della memoria emergono sensazioni, odori, volti, frasi, immagini legati ai miei primi vent’anni di esistenza; non in ordine di tempo, ma di improvvise associazioni o minuscole emozioni.
E “case”, soprattutto: i miei nidi.
La casa di Corso Dante, di fianco al Ponte Isabella, dove ho abitato per i miei primi dieci anni. La buttarono giù per costruire un palazzone moderno: piansi molto a vedere frantumate le vetrofanie liberty e gli stucchi e tutto quello che mi aveva circondato sino ad allora.
E rammento Nonna Bis , mia milanesissima bisnonna, che ci veniva a trovare in quella casa; uscivano a cena loro, i grandi, e poi tornando a casa passavano in Corso Massimo (D’Azeglio) costellato da prostitute impellicciate e vestite di lamé. E la Bis, guardandole con gli occhi spalancati, diceva convinta: “Oh, varda le sciure che sòrten da teàter!”.
Poi ricordo la Fontana delle Stagionial Valentino, ogni pomeriggio lì a giocare con mio fratello; c’erano strane rocce intorno, che ogni volta diventavano per noi montagne da scalare, aule di scuola, navi di pirati, tane di draghi, pianeti inesplorati.
Ricordo il Rosmini prima e poi Palazzo Nuovo; in questa stagione era ingentilito e illuminato da enormi cespugli di giallissime forstizie. Gli anni più belli della mia vita: anche lì dentro era “casa”, per me.
Ricordo la Caserma Monte Grappa, “casa” anche quella dal 1960 al 1980; mio padre – ufficiale alpino come suo nonno e suo padre – vi entrò giovanissimo tenente e ne fu colonnello comandante.
E di Torino ricordo bene il profumo dei tigli, talvolta così forte da stordire.
E le primavere e le estati col cielo color latte e il sole che sembrava un bottone di madreperla; per vederlo blu, quel cielo, bisognava aspettare una giornata di vento; allora sì diventava infinito, con intorno i monti che sembravano sorridere.
Li vedevo dalla finestra della mia camera, nell’ultima casa abitata, in Via Canova: un attico gelido d’inverno e bollente d’estate. Ricordo che con mamma, più d’una estate, andavamo a dormire su delle sdraio in terrazza. Ma la temperatura dentro e fuori non aveva variazioni.
Mia madre però non amava Torino; ci viveva da anni, ma le mancava sempre e troppo il suo mare.
Quando le chiedevano in che zona abitavamo, rispondeva: “Verso Genova”.
E voleva tornarci a tutti i costi. E così è stato, ma forse troppo tardi. Se l’è goduta poco.
Ora il mio nido, da 30 anni, è a Genova. E ne sono felice. Ma ogni volta che sento profumo di tigli, il cuore mi torna all’ombra della Mole.
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