Cristoforo Colombo era preoccupato; i reali spagnoli, sponsor del suo viaggio nel Nuovo Mondo, gli avevano detto chiaramente che lo avrebbero sovvenzionato soltanto perché lui aveva dato loro la certezza che là, nelle terra misteriosa, si trovavano di certo tonnellate di spezie preziose.
Allora il pepe, i chiodi di garofano e la cannella, monopolio commerciale degli arabi, valevano più dell’oro e dei diamanti: trovarne una “miniera” sarebbe stato economicamente un bel colpaccio per la Spagna, dalle casse perennemente vuote causa le lunghissime guerre intraprese per cacciare le roccaforti musulmane dal territorio iberico.
Ma una volta arrivato in quelle che credeva essere le Indie e invece erano l’America, il navigatore genovese si rese presto conto che le spezie preziose conosciute latitavano.
Il 22 dicembre del 1492 però annotava sul diario: “Gli indiani portavano piccoli sementi tutti uguali, ne gettavano un grano in ogni scodella d’acqua e ne bevevano”.
Quegli strani piccoli semi e relativi frutti che si chiamavano “axì”, li ritrovò nel 1494 nel secondo viaggio ad Haiti; il suo medico di bordo, Diego Alvaro Chanca di Siviglia, ne fu immediatamente incuriosito e provò a gustarne insieme a Colombo; ne furono ambedue entusiasti, tanto che Colombo scrisse alla regina Isabella: “E’ il loro pepe, e vale più del pepe. Tutta la gente non mangia senza di esso, che lo trova molto sano. Se ne potrebbero caricare in quest’isola cinquanta caravelle in un anno”.
Tutto vero, tranne quell’azzardato “vale più del pepe”; una volta sbarcato in Spagna nel 1514, l’axì –chiamato immediatamente “pepe d’India” e “chili” (dalla deformazione del nome originario), si diffuse in modo rapido in Europa, Africa Settentrionale, India, Asia e Turchia soprattutto sulle mense dei poveri.
La sua coltivazione estremamente facile e il prezzo, di conseguenza bassissimo, ne ne faceva un vero democratico sostituto del carissimo pepe.
Il naturalista rinascimentale Castor Durante, di lui scriveva: “Si può usare in tutti i condimenti dei cibi perché è di miglior gusto del pepe commune e per farlo più piacevole si pestano le sue guaine insieme col seme. Conforta molto questo pepe, risolve le ventosità, è buono per il petto e anche coloro che sono di frigida complessione ne conforta corroborando i membri principali”.
Il Mattioli, medico di Siena specializzato in piante medicinali, nel 1568 lo definiva “Pepe Cornuto” e ne elogiava le virtù antisettiche soprattutto per bronchi e naso.
Per questo nel ‘600 si diffuse la masochistica mania di mescolare pizzichi di peperoncino al tabacco da fiuto, ma poiché la miscela davvero esplosiva provocava raffiche di sternuti talmente violente da provocare anche emorragie oltreché danni ad occhi e parti cerebrali, la moda passò in fretta.
A dargli il nome scientifico ufficiale fu nel Settecento il botanico Linneo, che lo battezzò “Capsicum” dalla forma del frutto, vera e propria “capsa” (scatola, in latino) contenente i semi.
La sua caratteristica “bruciante”, gli valse ben presto la nomea di potente afrodisiaco; bandito per questo motivo dalla cucina dei conventi, veniva venduto nelle antiche farmacie al posto del Viagra.
Ciò spiega gran parte dei numerosi nomi dialettali che il peperoncino ha: tra questi, “diavulicchio” (o “diavulillu”) in Campania e dintorni (“U diavulicchio alza la coda”, recita un malizioso detto campano); “cazzariello” in Abruzzo e “pipazzo” in Calabria.