Piccolo Saggio Sull’Umorismo: Sorridere Per Sopravvivere

Il buon Dio, dopo aver creato il cielo, gli animali, le piante, insomma dopo aver creato il Creato, stette un po’ lì a guardarsi attorno pensando fra sé:
“Ho fatto tutto ‘sto po’ po’ di lavoro e nessuno mi dice Bravo! Oppure Io avrei fatto così o cosà…Il mio lavoro ora come ora risulta troppo perfetto e la Perfezione spetta solo a me, sennò s’inflaziona, non stupisce più e produce la Noia. Ma contro la Noia, cosa posso creare?”

Pensa che ti ripensa, ecco l’Illuminazione Divina:
“Eureka! Ho bisogno di Terra, Acqua, Miele, Fiele e Sale. Mescolando la terra con l’Acqua farò il fango; nel fango impasterò il Miele donatore di dolcezza ed il Fiele, dispensatore di malvagità. Poi modellerò un Essere a mia immagine e somiglianza ed il Sale glielo spargerò sulla testa per conferirgli l’INTELLIGENZA…”.

Radunati tutti gli ingredienti il Padreterno si mise al lavoro.

Fabbricato Adamo, gli alitò in faccia per animarlo; ma il potente soffio del fiato divino fece volar via gran parte dei granelli di Sale sparsi sulla superficie di quel cranio fangoso.

“Pazienza” sospirò il buon Dio “Quel po’ di Sale rimasto dovrebbe essere sufficiente per fornire all’uomo l’intelligenza necessaria. E se non gli bastasse, amen: ci sarò sempre io ad aiutarlo.”

La carenza di sale nella zucca di Adamo diede immediatamente i suoi frutti; prima la cacciata dal Paradiso terrestre per colpa di Eva, che divideva equamente i grani di Sale del consorte; poi la faccenda diCaino con il complesso del figlio unico e avanti così, per secoli e secoli.

Ciò dimostra come la nostra stirpe, discendente da un cranio carente di sale, non possa sempre definirsi dotata di un particolare acume, ma che abbia spesso del comportamenti sciocchi : infatti la parola “sciocco” significa letteralmente “privo o quasi privo di sale”.

E ammettere di considerarsi un po’ sciocchi, e di amare anche le cose un po’ sciocche, non è grave, anzi.

Persino Seneca, nel De tranquillitate animi, scriveva “Non vi fu alcun grande ingegno senza un poco di demenza”.

Demenza intesa in senso amabile; una persona può essere un Genio riconosciuto ufficialmente, una persona degnissima e affidabile e, nonostante ciò, comportarsi a volte in modo un po’ folle o semplicemente sciocco.

Nessun essere umano ne è immune; nessuno, ma proprio nessuno può dire: “Io non ho mai sbagliato una volta, io non ho mai detto un’assurdità o compiuto un’azione bislacca in vita mia”

Soltanto coloro che sono affetti dal micidiale morbo della “Padreternìte vivono beati nell’autoconvincimento di essere sempre perfetti, sempre intelligenti, perennemente furbi, eternamente ammirati per il loro fascino intellettuale.

E a noi miseri uomini e donne “normali” la cosa va benissimo, perché proprio i suddetti son quelli che ci offrono in continuazione occasioni di divertimento, grazie ai loro atteggiamenti tromboneschi o ragionamenti decisamente grulli.

Senza condurre nulla al paradosso, basta essere muniti di una buona ed indispensabile dose di senso dell’umorismo per riuscire a rintracciare il “buffo” ed il “ridicolo” in qualsiasi situazione, anche in quella apparentemente più banale, seria o disgraziata; non per nulla Pirandello affermava che l’Umorismo nasce spesso dal suo esatto contrario.

Molte sono le citazioni autorevoli sull’argomento.

Giovannino Guareschi, ne L’italiano non pensa mai solo, affermò: “ L’umorismo tende a semplificare le cose. Offre la possibilità di controllare i propri sentimenti e di spogliare di ogni sovrastruttura retorica gli avvenimenti”.

Lorenzo Sterne
 ebbe come opinione fondata che il riso potesse “aggiungere un filo alla trama brevissima della vita”, e Vincenzo Gioberti scrisse “il riso fu dato all’uomo perché ne usi; e chi non ride mai non è un uomo. L’anima è una cisterna che si secca se non è irrorata dal riso e dalla giovialità”.

Nicolas de Chamfort
 dichiarò che “la giornata più perduta è quella in cui non si è riso”, mentre Wilcox poetava “ridi e il mondo riderà con te; piangi e sarai solo a piangere”.

Persino Leopardi scrisse che “chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire”.

In compenso esiste anche il vecchio proverbio: “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”.

Indubbiamente esiste chi crede di divertire e meritarsi applausi comportandosi in modo assolutamente inconsulto nonché spesso buzzurro, ed esprimendo con volgarità concetti degni di quattro sberle più che di sorrisi.

Ma, casi patologici a parte, viene da pensare che in generale questo detto sia stato coniato da qualche uomo molto saggio, sì, ma anche molto noioso e deprimente come Jorge, il cattivo de Il nome della rosa, il quale affermava che :
“Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
E non contento aggiungeva, subito prima di mangiarsi il libro avvelenato di Aristotele:
“Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne”.
Però tutti noi sappiamo anche che di Jorge era meglio non fidarsi…

Perché  ridiamo e sorridiamo  – ma sia chiaro, sempre con intelligenza, buon senso e stile – per sdrammatizzare, cioé per allontanare il dramma, la tristezza, anche la semplice noia o l’imbarazzo che ci procurano alcune situazioni.

Sorridere è dunque necessario per sopravvivere, per riuscire ad accettare un po’ di più tutti i fastidi e le grane grandi e piccole della nostra esistenza: è indispensabile per esorcizzare il male, la paura, la rabbia, l’ansia, la malinconia, la depressione, lo stress. Persino il dolore.

E così l’autoironia, il saper sorridere anche e soprattutto di noi stessi,  è un sublime sistema di difesa: tramite essa possiamo imparare a riderci addosso, a ridimensionarci, a comprenderci meglio e, forse, a volerci anche più bene.

 Io so, da bona fonte, che il Creatore,
Dopo aver fatto i vermi e il firmamento,
Si decise a far l’ uomo in un momento
Di malumore.

Ma quando l’ebbe fatto,
E, bello vivo, almanaccar lo vide,
Disse fra sé, ballando com’ un matto:
– Mondo birbone, almeno ora si ride! –
(Renato Fucini, Firenze, 1873)

 

© Mitì Vigliero

Bombe Inesplose E Femmine Diaboliche Ovvero Strane Curiosità Sugli Altari Italiani

Molte chiese italiane conservano al loro interno vere e strane curiosità.

Ad esempio nella basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli, sotto l’arco del transetto si trova un maestoso tabernacolo che racchiude un grande crocifisso di legno: però la testa del Cristo è piegata da un lato in modo innaturale.

Sta scritto sulle cronache dell’epoca che il 17 ottobre 1439, mentre Alfonso d’Aragona assediava la città, un proiettile di bombarda spagnola entrò nell tempio – dove era in corso la Messa – puntando dritto al crocifisso, esattamente al volto di Gesù; ma un attimo prima di venir raggiunto, miracolosamente il Santo Capo si spostò e il proiettile colpì di striscio solo la corona di spine, scagliandola lontano.
Il colpo di bombarda è conservato, nella stessa chiesa, nell’ultima cappella a destra.

Un’altra bomba “votiva” si trova ad Ivrea, e pende dalla volta diSan Nicola da Tolentino; venne lanciata dalle artiglierie francesi nel 1704 e non scoppiò, proprio come quell’enorme proiettile da 381 che sta in bella vista nella cattedrale di San Lorenzo Genova: lì piombò il 9 febbraio del 1941, come gentile omaggio degli Inglesi, ma miracolosamente rimase inesploso.

Se nella chiesa di San Carlo in via Balbi a Genova si trova una Polena che diventò Madonna, nella chiesa di Santa Caterina a Treviso c’è il Diavolo vestito da donna.

Infatti, in un grande affresco del Quattrocento attribuito al Pisanello, si vede Sant’Eligio tentato da una matrona riccamente vestita; a osservar bene la signora però, si noterà che fra i capelli fan capolino due corna mentre, sotto la ricca gonna, spunta una lunga coda.

La rappresentazione di un altro travestimento femineo di Belzebù è la Madonna con le Corna  visibile negli affreschi del Foppa che decorano le pareti della Cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano.

Narra la leggenda che il Diavolo, mentre San Pietro celebrava la Messa, osò prendere le fattezze della Vergine salendo sull’altare.
Pietro però si accorse che il Satanasso distratto, nella fretta del travestimento, si era dimenticato di nascondere col velo le corna che aveva in fronte, e lo cacciò: questo spiega perché la Madonna là affrescata ha le corna (e anche il Bimbo che tiene in braccio ha le cornine).

E sul primo altare a destra della chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina, si trova un curioso quadro di Leonardo da Pistoia che rappresenta San Michele Arcangelo che calpesta e trafigge il Demonio raffigurato come un’orripilante creatura, mezza spaventoso drago e mezza splendida donna bionda.

Si tratta di un’immagine votiva del committente del quadro, Diomede Carafa vescovo di Ariano, il quale in tal modo – nel 1542 – volle ringraziare Dio della grazia d’averlo fatto resistere alle “lusinghe diaboliche” della nobildonna Vittoria d’Avalos: difatti sotto il quadro sta scritto “Fecit Victoriam Alleluia 1542, Carafa”.

Ma il viso della donna è talmente bello che i napoletani, come narra Benedetto Croce nello splendido Storie e Leggende Napoletane (1919), ne rimasero completamente affascinanti iniziando a usarlo subito come popolare termine di paragone.

E ancor oggi, per definire una donna che può portar guai, la definiscono “Bella come il diavolo di Mergellina”.

Update:

L’amico Jacopo Giliberto mi segnala via mail altre meravigliose stranezze:

” A Santa Maria delle Grazie, santuario dei Gonzaga alle porte di Mantova, nelle nicchie sulla navata ci sono statue come ex voto.

Sono statue di cartapesta soprattutto del periodo ‘400-‘600. Eccone una:

(*)

Un’altra:

(*)

Alcune si sono deteriorate, e si è scoperto che sotto la cartapesta dipinta c’erano, come sostegno, armature medievali  che non avevano più alcun valore bellico e quindi erano state usate come manichini per le statue.

Ora il Museo Diocesano ha la più importante collezione di armature gotiche al mondo…”

Qui altre notizie su questo santuario e i suoi spettacolari manichini “armati”.

© Mitì Vigliero

Dall’Emitubion Al Kleenex: Vi Racconto La Storia Del Fazzoletto

L’uso del fazzoletto risale ad epoche remote. E’ raffigurato, in forma rettangolare e bordato di frange, in alcune sculture cinesi del 1000 aC.

Il primo termine che lo identifica è egizianoemitubion; i popoli attorno al Nilo ne avevano numerosi nei corredi, tutti rigorosamente in lino e pur’essi frangiati.
Plutarco racconta che Cleopatra mandava al suo Antonio, come messaggio d’amore, fazzoletti intrisi di lacrime.

Greci lo chiamavano “rinomakon” o faxiolion”, e serviva esclusivamente per il naso; i Romani ne avevano due tipi: l’ “orarium”, legato al polso sinistro, che serviva in origine agli oratori per asciugarsi la bocca e il “sudarium”, legato alla cintura o al collo, per tergere il sudore stile Pavarotti in concerto.

Alla fine dell’Impero Romano il fazzoletto aveva vari nomi a seconda dell’uso cui era destinato: “nasitergium, manutergium, facitergium”, vocaboli rimasti tuttora nella liturgia ecclesiastica.

Dal Medioevo in poi, una città che produsse fazzoletti preziosi fu Genova; i “mandilli de sea” (fazzoletti di seta) e lo stesso nome è rimasto per indicare le lasagne.

Nel XV secolo divenne mero oggetto di moda, citato dai manuali di buone maniere; erano talmente belli che venivano tenuti fra le mani e esibiti come gioielli.

Nel 1594 Enrico IV donò 5 fazzoletti “d’ouvrage d’or, d’argent et soie” alla favorita Gabrielle d’Estrèes, affinché li mostrasse durante i ricevimenti a Corte quale pubblico riconoscimento d’amante ufficiale (era uso arabeggiante del Sultano nell’Harem il scegliere la favorita della notte lanciandole un fazzoletto).

L’abitudine di fiutare tabacco fece nascere fazzoletti colorati  che nascondessero le orrende macchie; ciò non tolse che dal XVII sec. diventassero addirittura lussuosi, zeppi di trine, fiocchi, arabeschi, motti galanti, perle e gemme varie: da allora nacque l’uso di ricamarci sopra le cifre per poterli ritrovare in caso di perdita o distinguerli da quelli altrui nelle numerose famiglie al momento del bucato e stiratura.

Luigi XIV impose nel 1687 la forma ufficiale del fazzoletto (quadrata) e Maria Antonietta lanciò la moda di profumarli.

Dopo la crisi delle frivolezze causata dalla Rivoluzione Francese, il fazzoletto come simbolo d’eleganza e seduzione tornò di moda nell’Ottocento, indispensabile al mondo femminile.

Fu simbolo di signorilità, pegno d’amore, spia di capricci, detentore di segreti: se Giuseppina Beauharnai, futura imperatrice di Francia, lo teneva civettuola di fronte alla bocca per nascondere i denti cariati, furono in molti a tenerlo nella stessa posizione per celare gli sbocchi di sangue dati dal male dell’epoca, la tisi.

E se gli uomini avevano da tempo deciso di tenerlo in tasca, le donne continuavano a stringerlo fra le dita. Tra il resto lasciarlo cadere era un ottimo metodo d’aggancio giovanotti; da lì infatti nacque la fatidica frase che spesso dava origine a serrati corteggiamenti: “Signorina, le è caduto il fazzoletto…”

Ma alla fine dell’800, dovendo lottare con la moda che imponeva l’uso contemporaneo di altri obbligatori strumenti di seduzione quali ventaglio, ombrellino, bouquet, guanti e borsetta, essendo donne e non polipesse decisero di cacciarlo definitivamente in quest’ultima.

Non dovendo più essere esibito se non in caso di raffreddore, pian piano il fazzoletto divenne un sobrio accessorio molto banale; e ora è praticamente scomparso, sostituito da quelli di carta usa e getta.

© Mitì Vigliero