Oh Placida Signora Blog Vestito Di Nuovo…

Questo blog compirà 9 anni il 23 di marzo 2013.

Nel 2006 da Splinder si è trasferito su WordPress, cambiando template, server e sistema.

Ora, dopo 6 anni, cambia di nuovo; un nuovo “vestito”, un nuovo “arredamento”, un sistema aggiornato, moderno e tecnologico.

Il merito di tutto ciò è del mio amatissimo Fabs, che ci ha lavorato a lungo con amore e passione facendomi un regalo meraviglioso.

Spero che questa nuova veste del blog piaccia a voi come piace a me.

E che vi ci troviate sempre come a casa vostra.

Da parte mia rinnovo la promessa che vi feci quando aprii Placida Signora:

…Sappiate che questo salottino sarà sempre uno spazio tranquillo per riflettere, imparare, scambiare idee, cultura, saperi, ricordi, tirare il fiato, sfogarsi, rilassarsi, sorridere in piena tranquillità.
Un mazzo di fiori sempre freschi sulla tavola, morbide poltrone foderate di stoffa allegra, divani, tappeti, pouf, un grande camino da accendere quando è il caso, una cucina una ghiacciaia e una dispensa piene di cose buone da bere e da mangiare: gli amici qui sono sempre i benvenuti, ogni giorno è buono per fare una piccola festa.
Serenità, ecco.
Vorrei, voglio donarvi, e ricevere, serenità.
Qui dentro non entreranno mai né isterici strilli, né gratuita volgarità, né acida cattiveria, né stupida superbia, né ambiziosi sgomitamenti, né beceri esibizionismi, né invidie e gelosie, né melliflua malafede, né ferocia da branco, né sterili o faziose polemiche.
Solo Affetto, Allegria, Quiete e Serenità.
Lo prometto.

E ora in alto i calici, per un brindisi d’inaugurazione: vi voglio sempre più bene, Tesorimiei!

 (Qui gli altri vostri saluti)

 

Vi Racconto La Difficile Arte Di Dare Il Titolo A Un Libro

Avete mai pensato all’importanza dei titoli?

Non mi riferisco a quelli nobiliari o di studio, ma ai titoli delle cosiddette opere d’ingegno; canzoni, opere, commedie, libri.

Parliamo di questi ultimi.

Innanzi tutto dovete sapere che la cosa più difficile dello scrivere un libro non è tanto scriverlo, quanto intitolarlo.

Il titolo è fondamentale: deve essere facile da ricordarsi, semplice a comprendersi, stuzzicante, divertente, curioso, illuminante.

Quando scrissi per la Rizzoli Lo Stupidario della Maturità ebbi il merito (o il demerito, fate vobis) di consacrare un termine che non solo diede vita ad un’interminale sequela di altri Stupidari riguardanti i più vari argomenti, ma di “ufficializzare” una parola entrata poi a tutti gli effetti nel linguaggio comune (…E mannaggia, potevo brevettarla in esclusiva eh?).

Ma Stupidario l’avevo chiamato sin da quando era solo un immenso fascicolo di appunti miei privati, raccolti in anni e anni di scuola.

E così è stato per tutti i miei altri libri; prima l’idea, poi il titolo, infine la stesura.

Tranne per uno.

Quando, ancora nel secolo scorso, consegnai alla Mondadori un perfetto manoscritto di 190 pagine riguardante le scuse umane, non avevo in mente nessun titolo in particolare e per trovarlo feci più fatica che scriverlo.

Prima pensai a: Tutte scuse!, Caduti in pretesto, L’Inventascuse, L’Acchiappascuse e Il Cercascuse.

Mio fratello propose Scusami, ma…; mio padre Italiani che si scusano o Le scuse degli italiani che si scusano, mentre vicini di casa molto intellettuali mi consigliavano titoli grondanti cultura classica quali Profasìsomai (“Accampare scuse”), De excusatione, opera omnia e Apologia (“La Difesa”), che sarebbe stato perfetto se non ci avesse già pensato quel grafomane di Platone.

Amici poeti mi proposero di inventare un titolo che non c’entrasse un tubo con l’argomento, ma che fosse altamente aulico come Le bianche farfalle dell’Oklahoma.

Mia madre invece, adducendo il fatto che i pretesti e le scuse quasi sempre altro non sono che semplici menzogne, frottole, fandonie, bubbole, fanfaluche, insomma balle o palle che dir si voglia, mi suggerì Il Raccattapalle.

Nel frattempo io sfornavo Il Prontuario dei pretestiIl Vademecum della giustificazioneL’Enciclopedia della discolpaIl Galateo delle scuseT’insegno a scusartiL’ABC della scusa.

Alla fine scrissi tutti i titoli su dei bigliettini, li infilai in un cappello e feci pescare a caso  dall’Editor.

In tal modo ebbi anche l’ottima scusa di non scrivere la solita prefazione del libro (cosa che odio fare) ma di usarla per raccontare questa storia, concludendola così: “Quindi se questo titolo non piacerà, sappiate che non è stata colpa mia, ma del Fato.”

© Mitì Vigliero

Piccolo Saggio Sull’Umorismo: Sorridere Per Sopravvivere

Il buon Dio, dopo aver creato il cielo, gli animali, le piante, insomma dopo aver creato il Creato, stette un po’ lì a guardarsi attorno pensando fra sé:
“Ho fatto tutto ‘sto po’ po’ di lavoro e nessuno mi dice Bravo! Oppure Io avrei fatto così o cosà…Il mio lavoro ora come ora risulta troppo perfetto e la Perfezione spetta solo a me, sennò s’inflaziona, non stupisce più e produce la Noia. Ma contro la Noia, cosa posso creare?”

Pensa che ti ripensa, ecco l’Illuminazione Divina:
“Eureka! Ho bisogno di Terra, Acqua, Miele, Fiele e Sale. Mescolando la terra con l’Acqua farò il fango; nel fango impasterò il Miele donatore di dolcezza ed il Fiele, dispensatore di malvagità. Poi modellerò un Essere a mia immagine e somiglianza ed il Sale glielo spargerò sulla testa per conferirgli l’INTELLIGENZA…”.

Radunati tutti gli ingredienti il Padreterno si mise al lavoro.

Fabbricato Adamo, gli alitò in faccia per animarlo; ma il potente soffio del fiato divino fece volar via gran parte dei granelli di Sale sparsi sulla superficie di quel cranio fangoso.

“Pazienza” sospirò il buon Dio “Quel po’ di Sale rimasto dovrebbe essere sufficiente per fornire all’uomo l’intelligenza necessaria. E se non gli bastasse, amen: ci sarò sempre io ad aiutarlo.”

La carenza di sale nella zucca di Adamo diede immediatamente i suoi frutti; prima la cacciata dal Paradiso terrestre per colpa di Eva, che divideva equamente i grani di Sale del consorte; poi la faccenda diCaino con il complesso del figlio unico e avanti così, per secoli e secoli.

Ciò dimostra come la nostra stirpe, discendente da un cranio carente di sale, non possa sempre definirsi dotata di un particolare acume, ma che abbia spesso del comportamenti sciocchi : infatti la parola “sciocco” significa letteralmente “privo o quasi privo di sale”.

E ammettere di considerarsi un po’ sciocchi, e di amare anche le cose un po’ sciocche, non è grave, anzi.

Persino Seneca, nel De tranquillitate animi, scriveva “Non vi fu alcun grande ingegno senza un poco di demenza”.

Demenza intesa in senso amabile; una persona può essere un Genio riconosciuto ufficialmente, una persona degnissima e affidabile e, nonostante ciò, comportarsi a volte in modo un po’ folle o semplicemente sciocco.

Nessun essere umano ne è immune; nessuno, ma proprio nessuno può dire: “Io non ho mai sbagliato una volta, io non ho mai detto un’assurdità o compiuto un’azione bislacca in vita mia”

Soltanto coloro che sono affetti dal micidiale morbo della “Padreternìte vivono beati nell’autoconvincimento di essere sempre perfetti, sempre intelligenti, perennemente furbi, eternamente ammirati per il loro fascino intellettuale.

E a noi miseri uomini e donne “normali” la cosa va benissimo, perché proprio i suddetti son quelli che ci offrono in continuazione occasioni di divertimento, grazie ai loro atteggiamenti tromboneschi o ragionamenti decisamente grulli.

Senza condurre nulla al paradosso, basta essere muniti di una buona ed indispensabile dose di senso dell’umorismo per riuscire a rintracciare il “buffo” ed il “ridicolo” in qualsiasi situazione, anche in quella apparentemente più banale, seria o disgraziata; non per nulla Pirandello affermava che l’Umorismo nasce spesso dal suo esatto contrario.

Molte sono le citazioni autorevoli sull’argomento.

Giovannino Guareschi, ne L’italiano non pensa mai solo, affermò: “ L’umorismo tende a semplificare le cose. Offre la possibilità di controllare i propri sentimenti e di spogliare di ogni sovrastruttura retorica gli avvenimenti”.

Lorenzo Sterne
 ebbe come opinione fondata che il riso potesse “aggiungere un filo alla trama brevissima della vita”, e Vincenzo Gioberti scrisse “il riso fu dato all’uomo perché ne usi; e chi non ride mai non è un uomo. L’anima è una cisterna che si secca se non è irrorata dal riso e dalla giovialità”.

Nicolas de Chamfort
 dichiarò che “la giornata più perduta è quella in cui non si è riso”, mentre Wilcox poetava “ridi e il mondo riderà con te; piangi e sarai solo a piangere”.

Persino Leopardi scrisse che “chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire”.

In compenso esiste anche il vecchio proverbio: “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”.

Indubbiamente esiste chi crede di divertire e meritarsi applausi comportandosi in modo assolutamente inconsulto nonché spesso buzzurro, ed esprimendo con volgarità concetti degni di quattro sberle più che di sorrisi.

Ma, casi patologici a parte, viene da pensare che in generale questo detto sia stato coniato da qualche uomo molto saggio, sì, ma anche molto noioso e deprimente come Jorge, il cattivo de Il nome della rosa, il quale affermava che :
“Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
E non contento aggiungeva, subito prima di mangiarsi il libro avvelenato di Aristotele:
“Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne”.
Però tutti noi sappiamo anche che di Jorge era meglio non fidarsi…

Perché  ridiamo e sorridiamo  – ma sia chiaro, sempre con intelligenza, buon senso e stile – per sdrammatizzare, cioé per allontanare il dramma, la tristezza, anche la semplice noia o l’imbarazzo che ci procurano alcune situazioni.

Sorridere è dunque necessario per sopravvivere, per riuscire ad accettare un po’ di più tutti i fastidi e le grane grandi e piccole della nostra esistenza: è indispensabile per esorcizzare il male, la paura, la rabbia, l’ansia, la malinconia, la depressione, lo stress. Persino il dolore.

E così l’autoironia, il saper sorridere anche e soprattutto di noi stessi,  è un sublime sistema di difesa: tramite essa possiamo imparare a riderci addosso, a ridimensionarci, a comprenderci meglio e, forse, a volerci anche più bene.

 Io so, da bona fonte, che il Creatore,
Dopo aver fatto i vermi e il firmamento,
Si decise a far l’ uomo in un momento
Di malumore.

Ma quando l’ebbe fatto,
E, bello vivo, almanaccar lo vide,
Disse fra sé, ballando com’ un matto:
– Mondo birbone, almeno ora si ride! –
(Renato Fucini, Firenze, 1873)

 

© Mitì Vigliero