Ho svuotato il solaio della Vecchia Casa.
Erano almeno 200 anni che nessuno lo faceva; togliere le cose lì ammassate in strati alti sino al soffitto è stato come scavare in ere geologiche familiari. Le ultime (ossia le prime che si vedevano negli strati che arrivavano a bloccare la porta d’ingresso), appartenevano al 1980, trasloco Torino-Genova.
E poi sempre più indietro nel tempo, quasi tutta rumenta ammuffita, “rifiuto secolare…di ciò che è stato e non sarà più mai” di gozzaniana memoria conservato amorevolmente per secoli perché “può sempre venir bene” e poi in realtà dimenticato appena chiuso là dentro.
I solai pieni di cose sempre belle e affascinanti nonostante la polvere e le ragnatele esistono solo nei vecchi romanzi e film fantasy; i solai reali sono un ammasso informe di spazzatura.
Ho gettato quintali di legno marcito, assi, persiane, sedie con una gamba, cornici spaccate. Dozzine di vetri in frantumi (finestre?) tenuti in ceste di vimini sfondate. Casse di stoffe tarlate, zuppe di umidità e color can che scappa. Ferri senza forma, grondanti gocce di ruggine; pentole bruciate, bucate, mangiate dal tempo, piatti crepati, tazze rotte, bicchieri sbreccati.
Via tutto. Bisogno di luce, aria pulita e spazio per poter aggiustare il soffitto in procinto di crollare e far posto ad altre cose che probabilmente i miei posteri considereranno rumenta.
Ma solo un pacchetto, piccino, avvolto in un brandello di coperta militare muffita e nascosto sotto una trave del soffitto incurvata, precaria e fatiscente mi ha sussurrato: “Per favore aprimi, prima di gettarmi via”.
Dentro la coperta, un altro pacchetto di carta marrone, zuppo di umidità e pieno di muffa. Dentro questo una busta fermata con uno spillo arrugginito a un altro (ancora!) pacchettino di carta un tempo azzurro carta da zucchero.
Aperta la busta con somma fatica (tutto appiccicato dall’acqua, carta a brandelli), una lettera:
“Sull’onore e sulla coscienza di colui al quale capiterà fra le mani questo pacco, la prego di non aprirlo e di esaudire la mia ultima volontà che è di fare il possibile (per) recapitarlo alla Signorina Teresa Filippi in Margarita Prov. di Cuneo.
Ringrazio infinitamente chi mi vorrà fare tanto favore.
Ten. Cocca Giuseppe”
Lettere. Lettere d’amore fra il mio bisnonno e la mia bisnonna paterni, i genitori di Nonna, dalle prime del 1896 alle ultime del 1906.
Lui giovane ufficiale degli alpini nato a Ceva, lei primogenita del Cavalier della Corona d’Italia Medico in Margarita Filippo Filippi.
Nel 1907 si sposarono.
Le lettere sono quasi un blocco unico incollato da polvere e muffa; vorrei leggerle, ma a parte la grafìa incomprensibile di Teresa che doveva averla ereditata dal papà medico, la lettera iniziale di Giuseppe, scritta in un momento di pericolo e ansia – le guerre c’erano anche allora, e continue – mi frena.
Quindi le metterò al sole, per farle asciugare.
Poi le legherò con un bel nastrino, le fascerò in una carta nuova e le metterò nel primo cassetto del comò della loro camera da letto, che ora è la mia.
E so che approveranno la mia scelta, facendo in modo da Lassù che il decrepito soffitto del solaio non mi crolli in testa.
(Tra quelle lettere, un portafoglio di seta ricamato da Teresa con le iniziali di Giuseppe, stelle alpine e una minuscola medaglietta d’argento della Madonna di Lourdes)