L’Italia è piena di paesi fantasma, disabitati da anni e anni; vicino a Matera ad esempio c’è Craco Vecchio, abbandonato nel 1963 a causa di una frana.
Un luogo sovrannaturale, arroccato su un cucuzzolo con tanto di antico castello e case diroccate: dicono che di notte si sentano urla e passi di corsa.
In Sardegna Gairo Vecchia, senza anima viva dal 1953 in seguito ad un’alluvione; nel Cilento Rossigno, lasciato dagli abitanti agli inizi del ‘900 perché stava franando e, in Garfagnana, Fabbriche di Careggine che appare come Brigadoon ogni 10 anni circa, quando viene svuotato il lago artificiale che lo sommerse. E nell’Aretino esiste Pratariccia, balzato ora alle cronache perché messo in vendita su Ebay…
Fino alla fine degli anni ‘60 chi, nelle trentine Valli Giudicarie percorreva la strada romana che da Stenico porta a Madonna di Campiglio inoltrandosi infine nella Val di Sole, dalla provinciale 34 e deviando sulla destra subito dopo il ponte del Lisan, poteva imbattersi in un autentico villaggio fantasma: Irone.
Una piccola chiesa un po’ fuori dall’abitato, raggiungibile con una stradina stranamente delimitata da uno muretto di alte lastre di porfido; poche case in pietra; porte strane, tonde e basse: all’interno, grandi camini in pietra che ospitavano ancora piccole panche e paioli attaccati alla catena sul focolare.
Sembrava che gli abitanti fossero scomparsi di colpo, come rapiti da un orribile mostro; ed effettivamente la storia andò così.
Nel 1630 la peste descritta dal Manzoni arrivò anche in Trentino.
Lo storico cappuccino Padre Cipriano Gnesotti (1717-1776), nelle sue “Memorie per servire alla storia delle Giudicarie” scriveva:
“Nell’anno 1630 il morbo menò tanta strage nello Stato Veneto che si calcolarono più di 500.000 morti”.
Irone , villaggio medioevale già citato nei documenti del XII sec., godeva di una posizione isolata e non avrebbe dovuto correre rischi di contagio.
Gli abitanti presero mille precauzioni affinché ciò non avvenisse: cintarono il villaggio con le alte lastre di porfido, misero guardie armate a controllare chi entrava, impedendo l’ingresso ai “foresti”.
Ma si dice che due donne del paese, attraversando la Val d’Ampola, trovarono a terra un paio di calze di lana nuove di zecca; raccolte, le portarono con loro per un bel pezzo fino a quando, colte dal dubbio che fossero state abbandonato da qualche appestato, le gettarono via.
Troppo tardi: arrivarono al paese e si ammalarono, contagiando velocemente gli altri abitanti.
Uno dopo l’altro, morirono tutti.
Si narra ancora che l’ultimo superstite, probabilmente in preda alla follia, si fosse rifugiato in cima ad una roccia a picco sulla vallata chiamando per giorni e giorni ad alta voce i nomi di amici e familiari, in una sorta di disperato appello; poiché nessuno rispondeva, vergò su un pezzo di carta il suo testamento, lo avvolse attorno a un sasso e lo gettò nel vuoto.
Poi , dopo essersi fatto si segno della Croce, si buttò nel vuoto anche lui.
Da qualche tempo Irone rivive per due, tre mesi all’anno; le case sono state restaurate, ma vengono abitate solo in estate.
Mi piace che continui a scrivere sul blog. Le tue storie sono sempre tanto belle e interessanti e non ne sono mai sazia. Ciao Mitì, buon fine settimana e un abbraccio.
a pochi km da Iron ci sono (anzi, non ci sono più) anche Varcè e Casinaga, più che decimati dalla peste. E il lazzareto di Caderzone. E le “Danze macabre” di Pinzolo e Carisolo. E la cappella dei 40 morti di Condino… sì, quassù siam gente allegra :)
Sono stata a Craco, ma all’ingresso del paese ci siamo resi conto che non avevamo detto a nessuno la nostra intenzione di andarci e così, visto l’isolamento, la desolazione e visto che avevamo con noi una bambina, abbiamo fatto dietro front