Un piatto che amo molto, perché molto saporito, completo e d’effetto.
Questa è la ricetta per 4 persone:
1 lattuga dalle belle foglie larghe e sode 400 gr. di mozzarella (anche bufala) 2 porri 8 acciughe sott’olio 8 grandi foglie di salvia olio sale pepe
Prendere 8 foglie di lattuga, lavarle bene, tuffarle in acqua bollente, scolarle e stenderle belle larghe ad asciugare.
Pulire i porri, prendere la parte bianca, tagliarla a fettine sottili sottili e passarle in un padellino con un poco d’olio facendole ammorbidire; salare e pepare e lasciarle lì.
Tagliare la mozzarella a dadini, schiacciarla un poco per far uscire l’acqua.
Tritare le foglie di salvia.
Accendere il forno a 200°.
Su ogni foglia di lattuga mettere un po’ di porri, un cucchiaio di dadini di mozzarella, una spruzzata di pepe, l’acciuga sott’olio, un po’ di salvia tritata.
Arrotolare ogni foglia ripiegando in sotto le estremità, facendo così un pacchettino che chiuda bene gli ingredienti e chiuderlo con uno stuzzicadenti.
Prendere una teglia, coprirla con carta da forno, disporvi i pacchettini e spargere un filo d’olio.
Infornare per 10 minuti (il tempo che la mozzarella si sciolga).
“La paura fa novanta” se si gioca al lotto, ma in modo figurato vuol dire che quando siamo spaventati facciamo o diciamo cose che ci sembrerebbero impensabili in situazioni normali; esistono persone che hanno “paura della propria ombra”, cosa che, più che a noi bipedi raziocinanti, dovrebbe essere più adatta ai cavalli ombrosi come Bucefalo, che fu domato da Alessandro il Macedone solo perché fu l’unico a capirne la paura.
Spesso “la paura non vien da fuori ma da dentro di noi”, come dicono i danesi; a volte è innata, come nel Don Abbondio di manzoniana memoria: “il coraggio uno non se lo può dare”.
A volte invece invece è un’esperienza passata a scatenare il timore: “gatto scottato con l’acqua calda teme pure quella fredda” e ciò può esser umano e comprensibile; però bisogna sempre ricordare che “la paura è un cattivo interprete” (Francia), può condurre anche a visioni errate dei fatti -“chi è inciampato nelle serpi ha paura delle lucertole” (Germania)- o a travisare la realtà “chi ha paura piglia la gatta per un lupo” (Polonia).
E dato che “cane pauroso abbaia più degli altri” (Gran Bretagna) può accadere che l’eccessivo timore spinga a “saltar nel fuoco per paura del fumo” (Austria), a “gettar le coperte per paura delle pulci” (Russia): si tramuti insomma in stupido allarmismo collettivo.
Ma è anche fuor di ogni dubbio che oggi viviamo in un periodo decisamente “da far paura”; si ha un bel dire “male non fare, paura non avere”: accadono cose paurose ogni giorno, anche a chi proprio non fa male a nessuno.
Perciò si ha “paura persino dell’aria respirata”, perché si capta ovunque un’atmosfera di ansia, violenza e insicurezza.
Un eccesso di prudenza in certi casi male non fa, “meglio aver paura che il danno” (Spagna), poiché “nulla è più da temere che il timore”, perché a lungo andare “la paura toglie il sonno e la pace” (Germania).
La paura “ode con mille occhi e vede con mille orecchie” (Sudan): le immagini e le parole terrorizzanti che quotidianamente i media ci porgono, spesso fanno venir voglia di barricarsi in casa.
Però è anche certo – e ne abbiamo purtroppo fior di esempi- che “nessun muro protegge dalla paura” (Portogallo); essa s’insinua sottile nei nostri gesti più normali, crea ansia, perché “la paura è fatta di niente” (Arabia) ma c’è, è lì.
Infine è da millenni noto in ogni saggezza popolare che “la paura non ha legge, “ la paura non ha vergogna”, “non ha onore”, “non ha virtù alcuna”, se non quella sciacallesca di chi approfitta delle paure altrui, magari fomentandole: ed è per questo che, da sempre, “la paura genera l’odio”.
Fino al XVIII secolo, usare le posate per mangiare e soprattutto possedere le forchette era un lusso proprio delle classi più nobili e abbienti.
Il popolo usava le mani per smembrare i cibi o portarseli alla bocca se solidi, un cucchiaio/mestolo per quelli liquidi e un coltello (di solito proprietà dei maschi di casa), che serviva a tagliar tutto, dalle corde ai rami alle pance dei nemici al pane sulla tavola.
Quando iniziarono a diffondersi le forchette anche nella piccola borghesia, il popolo, soprattutto quello contadino, considerò la cosa come una ridicola e stupida esibizione di finta nobiltà, oltreché un’inutile fatica.
Perciò “Parlare, comportarsi in punta di forchetta” ha assunto il significato di “esprimersi, muoversi con esagerata ricercatezza”
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