L’è el dì di Mort, alégher! – Usanze, credenze e cibi tipici del 2 novembre

2novembre

L’è el dì di mort, alégher!” direbbe ancora oggi con sarcasmo Delio Tessa osservando le carnevalate dell’Halloween americano adottato inconsultamente in Italia.

Il bello è che, in sostanza, per quello non è stato inventato nulla di nuovo ma come sempre sono solo state rielaborate millenarie tradizioni europee, italiane comprese, grazie a tutti quelli che nei secoli passati in America emigrarono.

Il dover “soffrire” l’eterna mancanza di luce una volta morti, era una delle cose che più spaventava i vivi.
Per questo da millenni nelle sepolture (o di fronte ad esse) vengono posti dei lumini, simbolo del Sole e della vita.

Seguendo questa tradizione, ad Orsara di Puglia da secoli per la festa del “Fuuc acost” si vuotano le “cocce priatorje” (zucche) incidendo la buccia e ponendovi dentro una candela (in Veneto si chiamano “lumére”) per porle poi all’esterno dei davanzali onde “far luce ai morti”, mentre agli angoli delle strade bruciano falò di ginestre su cui si cucina alla brace: le “monachine” (scintilline di braci leggere che salgono in alto) che s’innalzano verso il cielo, indicano ai defunti la strada da seguire per ritrovare parenti e cibo, lasciato apposta per loro lungo le strade.

In Sardegna da secoli vengono celebrati lS’ Animedda e Su Mortu Mortu, così come sui monti dAbruzzo i bimbi bussano alle case questuando fracassoni frutti e dolci perle àneme de li morti” (“trick or treats” nati più di mille anni fa) e dal Nord al Sud vi è la credenza che i defunti tornino sulla terra per riunirsi attorno al desco familiare lasciato, apposta, dai vivi, sulla tavola non sparecchiata e con la tovaglia stesa:

lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani
.”
(PascoliLa tovaglia).

In Liguria invece si credeva che le anime dei defunti familiari, mentre i congiunti si trovavano alla Messa solenne, s’infilassero nelle case e per sdraiarsi qualche momento sui letti che erano stati loro; per questo dovevano essere accuratamente rifatti, con lenzuola pulite e profumate di spigo. E sul comodino, l’immancabile (e oggi introvabilie) offiçiêu.

Antiche tradizioni funebri nostre, ormai purtroppo semiscomparse in favore del Grande Cocomero di Linus, sono i cibi.

 

Il pane, innanzitutto.

Miriadi di “pani dei morti”, salati o dolci e  fabbricati in modi diversi; con uvetta (Lombardia), con pepe (GrossetoSiena);“la fugassa co ‘e purpe”, il macinato d’olive rimasto nei frantoi, dal funebre color bruno (Liguria).

E poi i “manùzzi d’i’ mòrti” a forma di mani incrociate (Sicilia); “pitte collure” a Umbriatico (Catanzaro); la “piada dei morti” a Rimini; il “punghen cmàciàis” a Comacchio, oltre a vari macabri biscottini a forma d’ossa come gli “stinchetti” umbri.

Ma cibo rituale più legato ai morti son soprattutto le fave; si credeva che in loro si celassero le anime dei defunti.

Pitagora le odiava e proibiva di mangiarle “fuggendole al pari della carne umana”; dicono che pur di non attraversarne un campo, si facesse uccidere: chissà in quale fava è nascosto ora.

Le fave si mangiavano direttamente al cimitero (Livorno, Polesine, Calabria albanese), seduti sulle tombe: era come una comunione rituale.
Genova piatto tipico del 2 novembre è tuttora lo “stocafisso e bacilli”, in Veneto le “faoline”.

Ma le fave erano davvero pericolose, causa il favismo diffuso in molte zone; così nacquero anche dei dolci rituali, a base di pasta di mandorle quasi ovunque (Marche, Emilia Romagna, Lazio ecc) o pinoli (Venezia, Sardegna), biscottini o bon bon colorati, morbidi o duri come sassi.

Infine, la vera festa dei morti era in Sicilia; i bambini, non in maschera ma in pigiama, aspettavano quella notte per ricevere “li cosi di morti”, i doni (frutta martoranapupi di zuccaro) che gli “armi santi”, le anime sante dei parenti trapassati avrebbero certamente lasciato loro in un cestello o in una pantofolina dopo averli rubati nelle botteghe o, a Palermo, al mercato della Vucciria.

Perché mica hanno il borsellino, li Morti.

© Mitì Vigliero

A proposito di Placida Signora

Una Placida Scrittora ligurpiemontese con la passione della Storia Italiana, delle Storie Piccole, del "Come eravamo", del Folklore e della Cucina.


29 Replies to “L’è el dì di Mort, alégher! – Usanze, credenze e cibi tipici del 2 novembre”

  1. Ciao Mitì!
    Proprio ieri ho fatto un tipico dolcetto mantovano del giorno dei morti, le ossa dei morti.
    http://www.tlazolcalli.it/2010/10/os-di-mort-o-pezzi-duri.html
    E il giorno prima mi era venuto in mente il tuo articolo dell’anno scorso sulla fugassa co’e purpe. Quest’anno non l’ho ancora rifatta, ma in compenso ho scoperto un blog di un genovese “di successo”, emigrato negli USA, che si diletta a fare focacce e altre cose.
    http://www.vivalafocaccia.com
    Forte dei consigli di Vittorio, ho fatto una focaccia genovese sia con olive taggiasche, sia senza, con risultati che mi son sembrati entusiasmanti.
    http://www.tlazolcalli.it/2010/11/arriba-la-focaccia-genovese.html
    Mi sono dilungato, ma spero che apprezzerai le segnalazioni più o meno a fagiuolo :-)

    Ciao!
    Tlaz

  2. Pingback: Tweets that mention Placida Signora » Blog Archive » L’è el dì di Mort, alégher! – Usanze e cibi tipici del 2 novembre -- Topsy.com

  3. In alcuni casi i lumini sulle tombe erano naturali, i cosidetti fuochi fatui, origianati dai gas da decomposizione. Per molti popoli queste fiammelle erano le anime dei defunti (tuttora i lumini cimiteriali ne sono il simbolo, il binomio luce e vita è evidentemente valido anche per la Vita Eterna).

    ciao e a presto sui ns Blog

  4. Caio Mitì,
    da noi in Alto Adige Südtirol, la vigilia dei morti, i bambini ricevono dal loro padrino o dalla madrina una focaccia a forma di coniglio o gallina, le stesse focacce pasquali, ricche di uova simboliche!
    La mia nonna veneta, 86 anni, ha sempre fatto la zucca col lume!
    un caro saluto goloso, cat

  5. Da noi per i 4 giorni dei Santi e dei Morti si accendevano i lumini, dato che le candele erano costose e non sarebbero durate così a lungo in dei bicchieri di vetro riempiti a 3/4 ‘acqua si faceva galleggiare un dito di olio d’oliva (della nostra terra) e sopra si poneva una piccola croce di alluminio che al centro aveva un buco per il piccolo lucignolo, tenuto acceso giorno e notte.

    Per il periodo si facevano dei dolci “le fave triestine”.
    Un quarto di mandorle pelate asciugate nel forno, macinate vengono mescolate con 120 g di farina 3 albumi 240 g di zucchero, 2 cucchiai di acqua di rose, 1 bustina di vanillina. Si divide l’impasto in tre o quattro ed ad ognuno si aggiunge un “colorante” diverso. Per il bianco : rosolio bianco (50 cl), per il rosa: l’alkermes (50 cl), per le fave scure si usa il cacao in polvere (3 cucc.), ci sono anche fave verdi a cui si mescola pistacchio macinato a polvere. Dare la forma di piccole palline rotonde (non più grandi di una ciliegia) ed infornarle a 100° fino a che non si asciugano. Una volta venivano date ai bambini come “dono dei morti” ed andavano servite con rosolio ai parenti in visita nel periodo.

    Ho riletto con piacere Vittorio G. Rossi: aveva ragione, una volta le tradizioni tramandate di madre in figlia erano “legge” e si doveva a tutti i costi perpetuarle. Era un rinnovare le proprie radici, un riconoscere e riconoscersi tra simili.

    Un baxin, Renata

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