Alcune nostre usanze nuziali hanno origine latina; l’abito bianco esisteva già nei matrimoni dell’antica Roma.
La sposa infatti indossava una tunica bianca. Bianca era la stola che le scendeva ai piedi, bianca la regilla stretta ai fianchi da una fusciacca di lana bianca; bianche le strisce di lana che s’intrecciavano nei suoi capelli e infine bianca la corona di fiori che le cingeva il capo.
Anche l’uso di prendere in braccio la sposa al momento di entrare in casa ha origini romane: veniva portata a braccia dal marito sin nell’ “atrium” per evitarle di farle fare un ingresso col piede sinistro, cosa che sarebbe stata di pessimo augurio.
Romana è pure la tradizione della fede, anello matrimoniale posto all’anulare sinistro (che si pensava direttamente collegato al cuore), simbolo della fedeltà reciproca.
La credenza popolare vuole che la sposa il giorno delle nozze debba indossare qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di imprestato e qualcosa di azzurro.
Quasi ovunque si crede che se una zitel single riuscirà ad acchiappare al volo il bouquet, si sposerà entro sei mesi; in Romania i bouquet sono composti sono composti da fiori esclusivamente rossi, e le spose li fanno seccare conservandoli gelosamente insieme all’abito.
In Istria considerano date infauste per le nozze il 1° aprile, il 1° agosto e il 1° dicembre; in Sicilia al lunedì si dovrebbero sposare solo i vedovi e in Piemonte si sconsiglia il mercoledì (“Sposa merculina, anche tra cento non ne indovina una”).
Per quanto riguarda i mesi, in Liguria si pensava che non bisognasse sposarsi in settembre, perché “Sposa settembrina, presto vedovina”; questo sia perché le uscite dei pescatori in autunno, periodo di burrasche, erano particolarmente rischiose, sia perché a settembre in certi periodi storici pieni di guerre, avvenivano gli arrolamenti coatti negli eserciti.
A Napoli invece era lo sposarsi in maggio considerato un rischio, dato che – e qui il motivo lo ignoro – le “Nozze maggioline portano felicità breve”.
In Alto Adige, anticamente, i matrimoni venivano celebrati solo in inverno, quando i contadini non lavoravano i campi; ancora oggi molti scelgono di celebrare il “matrimonio contadino”, indossando i costumi tipici, tra musiche e danze, con un pranzo di nozze di quindici portate e con il corteo in slitta.
A Riscone e in tutta la Val Pusteria è solitamente difficile trovare qualcuno che accetti di fare da testimone della sposa, soprattutto se avrà il sospetto che questa verrà “rapita”: la cosa ha origini medioevali, quando i feudatari rapivano le sposine durante il banchetto per usufruire dello “jus prime noctis”.
Il testimone, scelto proprio come responsabile della difesa della fanciulla, partiva all’inseguimento dei rapitori e, se riusciva a raggiungerli, si riprendeva la sposa, ma doveva pagare di tasca sua un lauto riscatto come indennizzo al signore della “mancata consumazione”.
Ora le cose si sono “modernizzate”: a metà banchetto gli amici rapiscono la sposa (consenziente) sotto il naso del neomarito e, correndo come pazzi in macchina, fanno il giro di tutti i bar, “stube”, locande e ristoranti limitrofi, ordinando tonnellate di champagne e vino, cantando e ballando e poi riscappando in cerca di un altro locale dove folleggiare. Il testimone li insegue e – se non li trova prima schiantati da quanche parte sulla strada- è obbligato a pagare tutte le “consumazioni” fatte dai rapitori: ovviamente, prima li acchiappa, meno il costo sarà elevato.
In certi luoghi dell’Umbria, Toscana e Abruzzo esiste invece la tradizione del serraglio (o fettuccia, laccio, parata, intravata, ecc.): mentre gli sposi raggiungono in corteo appiedato la chiesa, i giovani del paese sbarrano loro la strada per mezzo di una corda impedendo così al corteo di proseguire sino a quando la sposa non lancerà confetti e monete come pagamento del pedaggio.
In Ciociaria esiste l’usanza di bombardare con confetti, durante il pranzo di nozze, piatti e bicchieri sino a fracassarli: il vino versato porta allegria, mentre i piatti disintegrati alludono alla fu verginità della sposa.
Nei paesi di tradizione Albanese gli sposi mangiano, per tutta la durata del pranzo, nello stesso piatto, come simbolo di comunione spirituale e materiale.
E in certi posti del Piemonte, della Lombardia e della Riviera Ligure, alla fine del ricevimento si celebra “il taglio della cravatta”: girando per i tavoli i testimoni “vendono” agli invitati una sottilissima striscia di cravatta dello sposo.
L’offerta è libera e quei soldi serviranno alla coppia per il viaggio di nozze, non per comprare una nuova cravatta perché gli sposini previdenti e mica scemi, al momento del “rito” si tolgono quella nuova bella e indossano la più brutta e vecchia reperita nel guardaroba.
Sempre in Ciociaria,gli sposi lungo il tragitto tra chiesa e ristorante lanciano i confetti ai passanti,quando eravamo bambini quasi ci ammazzavamo per andare a raccoglierli.Ciao Mitissima;@)
sei sempre grandiosa :)
Ne di venere ne di marte non si sposa, non si parte non si da inizio all’arte: è un proverbio veneto.
Insomma, secondo le tradizioni, ci si potrebbe sposare solo di giovedì, sabato o domenica, purché non coincidano con quelle tre date e non siano di settembre o maggio!
Mah!
Come al solito un post interessantissimo Mitì
Lo sposo non deve vedere la sposa in abito nuziale se non al momento delle nozze e i testimoni regalano le fedi.
All’uscita dalla chiesa gli invitati lanciano riso e confetti agli sposi. Ancora ricordo mia suocera che sull’uscio di casa accolse me e consorte gettando per terra un piatto pieno di confetti.
Ricordo il taglio della cravatta anche in Emilia-Romagna, ma parlo di matrimoni di un 25-30 anni fa; recentemente non l’ho più visto.
Lancio di riso: recentemente ho visto anche pastina (anellini, stelline, ecc.)
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