Ruderi e Storie: me le raccontate?



(foto ©Monica Costa)

I ruderi mi hanno sempre affascinato; pietre, sassi e mattoni che, ne sono convinta, mantengono sempre scintille di vita.

Perché le case, anche quelle dirute, hanno un’anima speciale, formata forse da tutte le anime che le abitarono.

Hanno assorbito come spugne fatti e pensieri svolti fra le loro mura.

Per me conservano sempre, nelle vecchie pietre, qualcosa della personalità, dei volti e delle voci di chi negli anni vi abitò.

Mi piace cercare di immaginare gli arredi delle stanze, l’abbigliamento delle persone, i loro caratteri…

Mi piace fantasticare sulle storie che lì dentro accaddero; piani di battaglia e scene di vita quotidiana; amori, odi, progetti, delusioni, complotti, passioni, litigi, soddisfazioni, nascite e morti.

Ad esempio, osservando la bella foto di quella finestra, finestra che potrebbe appartenere a un castello, una villa, una cascina, un convento, chi lo sa, mi chiedo chi mai lì si sia affacciato negli anni.

A guardare, controllare, aspettare, sognare cosa?
Volete raccontarmelo?

Librando: Ci abitava un uomo saggio, onesto, giusto, buono e gentile con tutti e sempre sorridente. Per questo tutti gli abitanti del villaggio, allegri e fondamentalmente buoni, ma abbastanza scapestrati e refrattari alle regole, colpiti dalle sue qualità lo scelsero entusiasti come Capo. Ma proprio perché era onesto e giusto, cominciò anche a punire chi andava contro la legge, predicò il rispetto e la serietà, combattè le ingiustizie e le menzogne, protesse diritti ma volle anche che si rispettassero i doveri, dimezzò i privilegi arroganti e così via. Sino a quando la maggioranza degli abitanti del villaggio, delusa e arrabbiata per il suo comportamento, gli si rivoltò contro, lo cacciò in esilio e distrusse la sua casa. E vissero felici e contenti, liberi nuovamente di fare tutto quello che cavolo pareva loro.

Mitia: Le sorelle, Ida e Lara, abitavano in quella casa da quando erano nate. Quattordici mesi esatti di differenza, una dall’altra. Ida, la maggiore, aveva gli occhi di brace. Lara, la più piccola, aveva gli occhi color del mare. Vissero assieme in quella casa, dividendo il pane, il letto e la vasca fino ai 19 anni. Poi Lara si innamorò di Piero e lo seguì sulle montagne, promise a Ida che sarebbe tornata un giorno per portarla con se in un mondo nuovo, pieno di pane, di letti con le lenzuola pulite e i materassi soffici e di acqua calda per lavarsi. Ida l’aspettò finché ebbe fiato. Poi arrivarono le erbacce e si portarono via tutto, il pane, i letti e l’acqua.

NonnaPapera: L’ultima ad abitare in quella casa fu la vecchia Elvira.
In paese dicevano che il fidanzato le era morto in guerra, ma le carte ufficiali recitavano “disperso”, così lei non si rassegnava e lo aspettava. Ogni sera, al tramonto, gettava lo sguardo attraverso la finestra, verso la strada che portava giù a valle, aspettando di vederlo arrivare, caparbia e paziente.
Anche quando il paese si spopolò Elvira, ormai vecchia e sola, non volle scendere a valle con gli altri. Rimase lì con la sua capra e le due galline. Ad attendere.

Mimosafiorita: In quella casa sulla spiaggia vive ancora lo spirito del vecchio Gaspare, dove una vita fa una nave di contrabbandieri lo abbandonò ferito al suo destino; sopravvisse perchè Rosina figlia di un pescatore dell’isola lo soccorse e lo curò con amore e amore fu per buona parte della loro vita fino a quando, una sera al tramonto, Rosina senza un perché apparente si incamminò verso il mare e scomparve. da allora, tutte le sere Gaspare cerca di leggere tra le onde il perché…

Luca: potrebbe essere il leggendario Castello del pirata Grigui a Castiglione:) con il tesoro nascosto, cercato per anni ed un passaggio segreto proprio dentro il paese…mai trovato. però il trave in legno tradisce le origini di una casa contadina il castello avrebbe avuto un trave in pietra

Morghy: In quella casa li’, che per fortuna e’ crollata ci abitava una stronza. No, non e’ un epiteto cattivo, se la conosceste la chiamereste cosi’ anche voi. Che finche’ e’ stata giovane ci abitava con i genitori. Poi la campagna, la vita e le vacche (quelle vere con la coda e le corna) hanno fatto si’ che si trasferissero poche centinaia di metri discosto, dove la loro stalla era piu’ grande e dove stavano piu’ mucche.
E della vecchia casa se ne sono disinteressati, prima i vecchi genitori che ora, pace li abbia, sono morti. E la stronza – perche’ lo e’, ve lo giuro – ha lasciato cadere tutto a pezzi piuttosto che vendere e/o affittare, perche’ cosi’ si sente padrona di tutto il paese, ma invece il paese con questi spettacoli di abbandono vanno in rovina.
Ma soprattutto, quella caz—cavolo di casa continua a crollare, pietra dopo pietra, sul mio tetto, diosanto!!! ( Ah, questa storia e’ vera, poiche’ la foto – GRAZIE MITI’!! – l’ho fatta io, quindi e’ la vera verita’ unica e certificata!)

Renata: La finestra è la “soglia” dell’anima, l’anima della casa, ma anche di chi vi abita. La finestra è libera, si intravvede dall’esterno il cielo: liberata dalle mura che la circondavano l’anima si è involata e si spande in quel cielo, senza limiti, ma lasciando come unico ricordo della sua vita mortale lo spazio occupato dalla finestra. I rovi si sono seccati, anche la finestra si sgretolerà: l’anima si sublimerà definitivamente fino a dilatarsi nello spazio eterno.

Leonardo: Luigino è saltato giù da quella finestra decine e decine di volte, tutte le volte che la Maria passava lì sotto e con un sorriso e un gesto appena accennato lo invitava a uscire per giocare, per andare di là dal fiume e correre nei campi di erba medica (che il contadino gli urlava dietro e li minacciava ogni volta col pugno alzato). Ma quella volta che la Maria non passò più, e neanche il giorno dopo e nemmeno quello dopo ancora, Luigino ne fece una malattia. Non mangiava, non dormiva, stava lì, affacciato a guardare, mattina e sera, qualche volta anche la notte. E intanto, poverino, deperiva, tanto che il dottore disse ai genitori di andare a vivere in città, che la campagna stava uccidendo Luigino e lì di cure non ce n’eran più. E così fecero, e la casa andò in rovina, e più niente si seppe di Luigino. Ma si dice che ogni anno, sul principio dell’estate, una signora alta e bionda come le principesse delle fiabe passi sotto quella finestra, e che fra le lacrime accenni appena un sorriso e abbozzi un gesto con la mano, come d’invito, per poi avviarsi lentamente verso il fiume e scomparire fra i campi d’erba medica, nel buio punteggiato dalle lucciole.

Raffa: Era una casa dai muri spessi di pietra e mattoni e dagli alti soffitti a volta. Quando da quella finestra entrava la prima luce del giorno, tutti erano già al lavoro nei campi. Tranne la vecchia nonna, che però non rinunciava a offrire alla famiglia le poche forze rimastele cucinando la minestra senza sale e rammendando gli abiti con del filo recuperato da vecchie tele, ché in quei tempi di guerra il sale e il filo da rammendo erano introvabili.
Proprio lei fu la prima a cadere sotto la raffica brutale di un mitra tedesco che in pochi minuti fermò il tempo per tutti i componenti di quella famiglia, poiché qualcuno aveva rivelato che tra loro si nascondevano “Dante” e “Ivan”, ricercati da tempo per quell’imboscata al convoglio delle SS.
Solo Martino, detto Nino, era riuscito a scampare attraverso la finestra, cimentandosi per l’ultima volta in quel salto che al tempo dei giochi era solo una prova di coraggio fra lui e i fratelli più grandi e correndo disperato con la forza dei suoi tredici anni. Di lui si seppe che era riuscito a costruirsi una casa e una famiglia oltreoceano. Non fece più ritorno, e il roveto finì per impossessarsi di quella finestra che gli aveva indicato la strada verso un’altra vita.

Marta: Durante le sere di agosto al lago, l’Alfonso (che era un contadino che viveva lì) raccontava a me e a mio fratello di una sera che era salito in paese a farsi una bevuta ed era rientrato col buio. Scendendo aveva notato che il rudere della Garavina, abbandonato da anni, era illuminato. La curiosità aveva avuto la meglio sul timore, probabilmente anche grazie al vino. Si era avvicinato senza far rumore e aveva spiato da una delle finestre. “La ciucca mi è passata di colpo…dentro c’era un gran fuoco e intorno tre streghe che ballavano! Tutte nude!” A questo punto del racconto mia mamma ci spediva a dormire, e noi scappavamo a letto senza guardare verso la strada, ché oltre la curva c’era la Garavina e chissà cosa stava succedendo…

A proposito di Placida Signora

Una Placida Scrittora ligurpiemontese con la passione della Storia Italiana, delle Storie Piccole, del "Come eravamo", del Folklore e della Cucina.


21 Replies to “Ruderi e Storie: me le raccontate?”

  1. Le sorelle, Ida e Lara, abitavano in quella casa da quando erano nate. Quattordici mesi esatti di differenza, una dall’altra. Ida, la maggiore, aveva gli occhi di brace. Lara, la più piccola, aveva gli occhi color del mare. Vissero assieme in quella casa, dividendo il pane, il letto e la vasca fino ai 19 anni. Poi Lara si innamorò di Piero e lo seguì sulle montagne, promise a Ida che sarebbe tornata un giorno per portarla con se in un mondo nuovo, pieno di pane, di letti con le lenzuola pulite e i materassi soffici e di acqua calda per lavarsi. Ida l’aspettò finché ebbe fiato. Poi arrivarono le erbacce e si portarono via tutto, il pane, i letti e l’acqua.

  2. L’ultima ad abitare in quella casa fu la vecchia Elvira.
    In paese dicevano che il fidanzato le era morto in guerra, ma le carte ufficiali recitavano “disperso”, così lei non si rassegnava e lo aspettava. Ogni sera, al tramomonto, gettava lo sguardo attraverso la finestra, verso la strada che portava giù a valle, aspettando di vederlo arrivare, caparbia e paziente.
    Anche quando il paese si spopolò Elvira, ormai vecchia e sola, non volle scendere a valle con gli altri. Rimase lì con la sua capra e le due galline. Ad attendere.

  3. In quella casa sulla spiaggia vive ancora lo sirito del vecchio Gaspare, dove una vita fa una nave di contrabbandieri lo abbandonò ferito al suo destino,sopravvisse perchè Rosina figlia di un pescatore dell’isola lo soccorse e lo curò con amore, e amore fu per buona parte della loro vita, fino a quando una sera al tramonto, Rosina senza un perchè apparente si incammino verso il mare e scomparve, da allora, tutte le sere Gaspare cerca di leggere tra le onde il perchè….

  4. potrebbe essere il leggendario Castello del pirata Grigui a Castiglione:) con il tesoro nascosto, cercato per anni ed un passaggio segreto proprio dentro il paese…mai trovato
    però il trave in legno tradisce le origini di una casa contadina il castello avrebbe avuto un trave in pietra

  5. In quella casa li’, che per fortuna e’ crollata di abitava una stronza. No, non e’ un epiteto cattivo, se la conosceste la chiamereste cosi’ anche voi. Che finche’ e’ stata giovane ci abitava con i genitori. Poi la campagna, la vita e le vacche (quelle vere con la coda e le corna) hanno fatto si’ che si trasferissero poche centinaia di metri discosto, dove la loro stalla era piu’ grande e dove stavano piu’ mucche.
    E della vecchia casa se ne sono disinteressati, prima i vecchi genitori che ora, pace li abbia, sono morti. E la stronza – perche’ lo e’, ve lo giuro – ha lasciato cadere tutto a pezzi piuttosto che vendere e/o affittare, perche’ cosi’ si sente padrona di tutto il paese, ma invece il paese con questi spettacoli di abbandono vanno in rovina.
    Ma soprattutto, quella caz—cavolo di casa continua a crollare, pietra dopo pietra, sul mio tetto, diosanto!!!

    Ah, questa storia e’ vera, poiche’ la foto – GRAZIE MITI’!! – l’ho fatta io, quindi e’ la vera verita’ unica e certificata!

    :-P
    M.

  6. La finestra è la “soglia” dell’anima, l’anima della casa, ma anche di chi vi abita. La finestra è libera, si intravvede dall’esterno il cielo: liberata dalle mura che la circondavano l’anima si è involata e si spande in quel cielo, senza limiti, ma lasciando come unico ricordo della sua vita mortale lo spazio occupato dalla finestra. I rovi si sono seccati, anche la finestra si sgretolerà: l’anima si sublimerà definitivamente fino a dilatarsi nello spazio eterno.

  7. Luigino è saltato giù da quella finestra decine e decine di volte, tutte le volte che la Maria passava lì sotto e con un sorriso e un gesto appena accennato lo invitava a uscire per giocare, per andare di là dal fiume e correre nei campi di erba medica (che il contadino gli urlava dietro e li minacciava ogni volta col pugno alzato). Ma quella volta che la Maria non passò più, e neanche il giorno dopo e nemmeno quello dopo ancora, Luigino ne fece una malattia. Non mangiava, non dormiva, stava lì, affacciato a guardare, mattina e sera, qualche volta anche la notte. E intanto, poverino, deperiva, tanto che il dottore disse ai genitori di andare a vivere in città, che la campagna stava uccidendo Luigino e lì di cure non ce n’eran più. E così fecero, e la casa andò in rovina, e più niente si seppe di Luigino. Ma si dice che ogni anno, sul principio dell’estate, una signora alta e bionda come le principesse delle fiabe passi sotto quella finestra, e che fra le lacrime accenni appena un sorriso e abbozzi un gesto con la mano, come d’invito, per poi avviarsi lentamente verso il fiume e scomparire fra i campi d’erba medica, nel buio punteggiato dalle lucciole.

  8. Era una casa dai muri spessi di pietra e mattoni e dagli alti soffitti a volta. Quando da quella finestra entrava la prima luce del giorno, tutti erano già al lavoro nei campi. Tranne la vecchia nonna, che però non rinunciava a offrire alla famiglia le poche forze rimastele cucinando la minestra senza sale e rammendando gli abiti con del filo recuperato da vecchie tele, ché in quei tempi di guerra il sale e il filo da rammendo erano introvabili.
    Proprio lei fu la prima a cadere sotto la raffica brutale di un mitra tedesco che in pochi minuti fermò il tempo per tutti i componenti di quella famiglia, poiché qualcuno aveva rivelato che tra loro si nascondevano “Dante” e “Ivan”, ricercati da tempo per quell’imboscata al convoglio delle SS.
    Solo Luigino era riuscito a scampare attraverso la finestra, cimentandosi per l’ultima volta in quel salto che al tempo dei giochi era solo una prova di coraggio fra lui e i fratelli più grandi e correndo disperato con la forza dei suoi tredici anni. Di lui si seppe che era riuscito a costruirsi una casa e una famiglia oltreoceano. Non fece più ritorno, e il roveto finì per impossessarsi di quella finestra che gli aveva indicato la strada verso un’altra vita.

  9. (oh caspita, ho usato anch’io il nome Luigino, ma il commento precedente non lo avevo letto, mi è apparso solo quando ho pubblicato il mio!)

  10. la finestra del signor P

    il vecchio guardava la finestra e piangeva …. dietro a quella finestra c’era tutta una vita,e lui era l’ultimo,l’ultimo di tutti,ma tutti i suoi sforzi erano risultati vani…dopo di che….chiuse gli occhi e morì….SENZA ANDARE IN PENSIONE…

  11. Durante le sere di agosto al lago, l’Alfonso (che era un contadino che viveva lì) raccontava a me e a mio fratello di una sera che era salito in paese a farsi una bevuta ed era rientrato col buio. Scendendo aveva notato che il rudere della Garavina, abbandonato da anni, era illuminato. La curiosità aveva avuto la meglio sul timore, probabilmente anche grazie al vino. Si era avvicinato senza far rumore e aveva spiato da una delle finestre. “La ciucca mi è passata di colpo…dentro c’era un gran fuoco e intorno tre streghe che ballavano! Tutte nude!” A questo punto del racconto mia mamma ci spediva a dormire, e noi scappavamo a letto senza guardare verso la strada, ché oltre la curva c’era la Garavina e chissà cosa stava succedendo…

  12. Ci abitava i cielo, e ci abita ancora (lo si vede attraverso il vetro). Quando è blu, come adesso, è incapace di forzare le finestre di cui si sono impadronite i rampicanti. O forse non vuole. Non lo vuole più.

  13. Aspettavo il trattorista nel cortile della casa diroccata, lo vedevo arrivare in fondo alla carraia con il suo Fiat 80-90 arancione, la seminatrice Gaspardo già agganciata. Nel mio quaderno avevo le dosi di quanto seme di mais doveva seminare, perchè bisogna essere precisi, ed è il migliore dei trattoristi che viene scelto per seminare, che per erpicare o arare vanno bene un po’ tutti.
    Mentre aspettavo avevo curiosato nella casa colonica abbandonata: aveva il tetto sfondato, una lunga crepa che scendeva fino a un pergolato secco sopra la porta d’ingresso con la porta accostata, dentro attrezzi agricoli, flaconi di diserbante vuoti, cartacce, tantissime bottiglie vuote. Un rudere non più abitato da decine di anni, evidente.
    Ma anche, sul tavolo da cucina, una tovaglia di plastica, delle posate nel cassetto, e il mattarello infilato sotto. Un triciclo scolorito dal sole, un pupazzo di gomma di Paperino.
    Arriva il Nando con il trattore – Cade a pezzi questa casa – gli dico. Ci mette poco una casa ad andare in malora – mi dice – …. ci abitavo io tre anni fa, sono bastati due inverni senza riscaldamento per ridurla così. Adesso abito in paese, ‘na stansa e basta, tanto…. Nando capisce che ho visto il triciclo, i giochi, e a cosa sto pensando. – Mia moglie se n’è andata via col ragass… l’ha fatt bei, Cecco… – (guarda la porta della casa) – … andum a sumnà, và, daam i numar.

  14. Quando il rudere dalla finestra senza memoria si rese conto che doveva cadere capì che le cose si mettevano male. Non era mai stato come gli altri e verso la fine delle propria vita non gli interessava di assomigliare a nessuno. Così un giorno decise di dimenticarsi di cedere e guardò attraverso la sua finestra, dalla quale non poteva più ricordare che doveva cadere né quando.

  15. Su un vecchio rustico, forse adibito a stalla, mani instancabilmente forti, ma aggraziate nella scelta e nell’incastro delle pietre, pian piano eressero questa casa rendendo grande l’opera finale. Questi muri di pietra videro tempi migliori quando vi abitarono più generazioni di contadini e quando la terra intorno, rigogliosa di ginestre , ulivi e viti, sembrava rendere omaggio alla piccola fortezza dominante su uno dei tanti terrazzamenti che frastagliavano la collina. Ancora narrano di un tempo scandito dai fiori e dai frutti di stagione e di quella genuina quotidianità, propria di chi è nato e vissuto in un solo luogo . Giovanni è tornato per preservare ciò che resta di quella culla di semplici affetti, restituiti alla terra coi corpi dei vecchi e proiettati oltreoceano con le speranze dei più giovani. Lascia che i rovi incornicino la finestra, la stessa dalla quale aveva assaporato i colori della natura e delle varie età dell’uomo. Questa finestra ha ispirato molti suoi quadri e gli ha portato davvero fortuna. Il tempo sgretola ogni cosa, ma chissà come ha risparmiato questo sguardo di luce, questo robusto telaio rimasto intatto come la nostalgia di radici mai strappate.

  16. In memoria di Remigio al Maso dei Rospi

    Il nostro compito era di risalire una piccola valle verso il Passo Brocon. Tanto bella quanto deserta. Tutti i piccoli masi erano desolatamente vuoti, le finestre senza più imposte parevano occhi neri spalancati su prati ingialliti che nessuno più falciava.
    Eravamo tre scouts mandati a fare l’hike, un’attività speciale per imparare a raggiungere una mèta esplorando il territorio percorso. Per la notte occorreva trovare ospitalità offrendo in cambio un servizio. Siccome non c’era nessuno lì in alto verso il passo, fu necessario scendere verso il fondo valle, passando di maso in maso a bussare. Fu solo una triste rassegna di abitazioni chiuse o mezzo diroccate, che tutt’al più potevano offrirci qualche ciliegia selvatica sull’albero piantato all’angolo dell’aia.
    Finalmente il sentiero ci portò ad una radura un po’ ampia e pianeggiante. Al centro si distendeva un acquitrino creato per la torbiera. Su un leggero dosso più esposto al sole stava un maso, modesto e dignitoso, ma soprattutto abitato! Ce lo segnalava il camino con un filo di fumo bianco. In un balzo eravamo già sul cortile, pronti a fare la nostra buona azione, ma l’incontro non si dimostrò facile come ci aspettavamo. Un anziano piuttosto corpulento, che a noi parve un omone, ci squadrava con sospetto, mentre gli chiedevamo ospitalità in cambio di un servizio. La risposta fu secca e risoluta: c’era sì posto su al piano superiore adibito a fienile, ma non gli serviva nulla, non voleva niente da tre ragazzetti di città.
    La sera scese rapida e la notte in sacco a pelo, lassù in quel fienile, fu qualcosa di unico. Dove il tetto era un po’ scoperchiato vedevamo brillare le stelle, mentre qualche ragnetto ci faceva sobbalzare di paura passando sulle nostre teste. Ad un certo punto compave perfino l’omone, quando eravamo già mezzo assonati, per portarci un mucchio di coperte che lasciò cadere a terra: una bella zaffata di polvere di fieno ci investì in volto e innescò una sonora serie di starnuti!
    Il mattino dopo eravamo attesi. Il padrone di casa se ne stava seduto sull’aia insieme ad un amico. Dopo aver rifiutato nuovamente la proposta di un servizio ci offrì inaspettatamente il caffè e – non so dire come sia iniziata la conversazione – ci fece scoprire come mai quel maso era ancota l’unico abitato in quella valle di ruderi. Era la casa di Remigio, il vecchio montanaro che prese a raccontare la sua vita a tre ragazzetti di città.
    Quando la guerra richiamò tra gli alpini i giovani del Tesino, anche lui dovette partire, lasciando gli anziani genitori alla cura dei pascoli e al lavoro nella torbiera. E quando le truppe italiane furono lasciate a se stesse dopo l’armistizio, quel figlio dei monti si diede alla macchia per sfuggire all’arruolamento tra i repubblichini o all’arresto da parte dei tedeschi. A causa di una ferita camminava un po’ sciancato, ma le forze non gli mancarono per risalire un po’ alla volta l’Italia attraverso boschi e campagne, dal Meridione fino alla sua valle nel Tesino. Lì giunse in incognito dopo qualche mese, senza nemmeno passare per il suo paese. Trovò sua madre, rimasta sola dopo la morte del padre, e visse di nascosto fino alla fine della guerra. Poi, uscito allo scoperto, negli anni seguenti anche lui divenne protagonista degli anni della ricostruzione. A suo modo: con le proprie mani restaurò la vecchia casa, alla quale era tornato e si dedicò ai pascoli e alla torbiera.
    Ricordo ancora la fierezza di Remigio mentre indicava l’insegna tracciata di suo pugno nel riquadro di malta sopra la porta d’ingresso: “Maso dei Rospi 1952”. Naturalmente con la S scritta a rovescio. Grazie, Remigio, sei stato il nostro eroe e noi ospiti d’onore nel tuo castello.

    Nat

    26 maggio 2010, trentacinque anni dopo

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